Fiat libera in libero mercato
Adesso è certo. Ufficiale. I nostri politici - maggioranza e opposizione - ancora non hanno capito chi è Sergio Marchionne. Men che meno i capi sindacali. Lo dimostra la risposta pressoché identica che giunge dal governo, dal segretario del Pd Pierluigi Bersani. e dal sindacato all'annuncio dell'amministratore delegato della Fiat di spostare in Serbia, nel nuovo impianto di Kragujevac, di parte della produzione destinata a Mirafiori e di investimenti per 350 milioni di euro. «Apriamo subito un tavolo» dice il ministro Maurizio Sacconi. «Il governo convochi un tavolo di trattativa e riferisca in Parlamento» intima Bersani. Quanto ad acume, brilla il ministro leghista Roberto Calderoli: «L'ipotesi della Serbia non sta né in cielo né in terra» tuona, come se dipendesse da lui. E poi: «Non si può pensare di sedersi a tavola, mangiare con gli incentivi dell'auto e poi alzarsi senza aver pagato il conto». Ma di che cosa, e soprattutto di chi (s)ragionano? Marchionne è alla Fiat non da ieri, ma dal 2004, e ha fatto fuori decine di manager operativi e nomi eccellentissimi. Ultimo, Luca di Montezemolo. Ha avuto mano libera perché ha preso in mano un'azienda che tutti davano per fallita: a cominciare dagli Agnelli, tra i quali molti si accingevano a dividersi spoglie ed l'eredità. L'ha rimessa in sesto, ha comprato la Chrysler, ne ha fatto un gruppo globale che oggi è di nuovo, per la prima volta nella sua storia, un player planetario. Ha riportato utile e dividendi. Marchionne è oggi, secondo il Financial Times, “l'oracolo dell'industria mondiale dell'auto, visto che ha saputo generare più denaro producendo meno veicoli”. Certo, ha anche avuto gli incentivi e la cassa integrazione: ma in quale periodo di questo dopoguerra la Fiat non è stata aiutata dallo Stato? Anzi, quale grande azienda non ha beneficiato di fondi pubblici? La differenza era che prima, con gli incentivi, il Lingotto produceva auto scadenti e non competivive sui mercati; ora la Fiat se la batte con i colossi europei e giapponesi sul mercato più importante del mondo, gli Usa. Non solo. Prima, sempre con gli incentivi, la Fiat chiudeva entrambi gli occhi su ogni sorta di malcostume e lavativismo sindacale; ora Marchionne ha detto basta. E questo per un motivo semplice: la Fiat – dall'Avvocato in giù - faceva politica. Marchionne non cerca consensi e simpatia. Un anno fa, quando ha dato l'assalto alla Chrysler (riuscito) e alla Opel (fallito), al primo punto dell'agenda non ha messo le conferenze stampa con Barack Obama sul prato della Casa Bianca, o con Angela Merkel nella cancelleria di Berlino sulla riva dello Spree. Per lui ciò che contava davvero era l'accordo con la Union of Auto Workers, il più antico e potente sindacato mondiale dell'auto. Dalla Uaw, che negli Usa è riuscita ad eleggere presidenti o determinarne la caduta, Marchionne ha ottenuto un impegno di ferro a produrre di più ed a costi più bassi, e la rinuncia ad antichi privilegi, dentro e fuori la busta paga. Non ha certo rifiutato i prestiti federali; ma era la disponibilità dei sindacati che gli serviva, visto che alla fine le auto le fabbricano i dipendenti e non i politici. E nonostante questo, ha portato in Messico la produzione delle 500 americana. Analogamente ha sbattuto la porta alla Merkel quando ha visto che tra le condizioni del governo tedesco c'era una sorta di cogestione non solo sindacale ma anche con i notabili dei land. Non è peraltro una dottrina che Marchionne pratica in esclusiva: c'è chi va oltre, come la Toyota che ha appena spostato la produzione della Corolla dalla California al Mississipi perché lì il sindacato non c'è. E l'Italia? Marchionne ha ereditato una situazione che si può definire umiliante. Nel 2009 con 26 mila dipendenti si sono prodotte 645 mila auto. In Brasile se ne sono prodotte 700 mila con 8.700. In Polonia 600 mila con 5.800. Nonostante tutto il Lingotto ha pianificato per l'Italia 8 miliardi di investimenti ed un balzo ad 1,4 milioni di veicoli della capacità produttiva; a condizione che si ridefinissero gli accordi con i sindacati. Cioè che si lavorasse di più e meglio. Un progetto, Fabbrica Italia, al quale tutti hanno battuto le mani. Alla prima prova dei fatti - l'accordo per trasferire a Pomigliano la Panda dall'iper-produttivo impianto polacco di Tichy – si è però visto come funzionano le cose da noi. Quattro lavoratori su dieci hanno detto di no, la Cgil ne ha fatto un caso politico, la Fiom si è appellata alla Costituzione, mentre il governo si vantava di aver diviso i sindacati. Un fiume di parole. E dopo, una pioggia di scioperi e conflittualità. È storia di appena un mese addietro, ma evidentemente non ha insegnato nulla. Tranne che a Marchionne: onorato l'impegno per Pomigliano, il capo del Lingotto ha estratto dal cassetto un'offerta di Belgrado di 250 milioni di euro più 400 ottenuti dalla Bei dal governo serbo, ad ulteriore dimostrazione che solo noi con i fondi comunitari riusciamo a produrre chiacchiere e non lavoro. Stornando 350 milioni dai fondi destinati all'Italia, Marchionne si è trovato una fabbrica nuova di zecca, un miliardo liquido e zero problemi politici e sindacali. Voi che cosa avreste fatto? Ieri pomeriggio Silvio Berlusconi ha aggiunto la propria opinione al coro di polemiche. Ha detto: «In una libera economia e in un libero stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione. Mi auguro solo che questo non accada a scapito dell'Italia e degli addetti italiani a cui la Fiat offre lavoro». Il Cavaliere ci ha almeno risparmiato la retorica dei "tavoli". Però le sue parole si contraddicono da sole. Era stato lui stesso ad annunciare in pompa magna una legge di riforma costituzionale (la "legge Berlusconi") per modificarne l'articolo 41, che subordina la libertà d'impresa all'"utilità sociale". Non gli si può dare torto: solo che Marchionne ha dimostrato che per praticare la libera impresa – e quindi creare lavoro – non c'è bisogno di scomodare la Costituzione. Basta passare dalle chiacchiere ai fatti.