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Il motore rosa del Paese

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Isabella Rauti

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C'è una rivoluzione femminile che sta attraversando sottotraccia l'economia globale. L'Economist l'ha battezzata con il neologismo Womenomics; la nuova corrente economica che punta sul lavoro delle donne come motore e dinamica dello sviluppo e sull'intreccio propulsivo tra lavoro femminile e crescita economica. Se non nella stessa corrente ma, almeno, nella scia della stessa teoria un po' rivoluzionaria si possono inquadrare i risultati della ricerca GEA, commissionata dalla Fondazione Marisa Bellisario,presentati ieri a Roma nel corso della XXII Edizione del Premio, intitolata - appunto - "Le donne motore per lo sviluppo". Si tratta di un'analisi quali-quantitativa del contesto delle aziende italiane, dalla quale emergono con evidenza plastica non solo lo scarto di genere nelle posizioni di vertice aziendali e manageriali (le donne occupano circa il 6,9% dei posti di comando) ma anche la "necessità-urgenza" di definire interventi e strumenti per recuperare e per accelerare la crescita delle donne dentro le aziende e nei loro organismi di governo. La Ricerca, effettuata su un campione di circa 1.800 aziende medio/grandi del nostro Paese, appartenenti a 24 diversi comparti - individua il contributo distintivo delle professionalità femminili nello sviluppo delle imprese italiane e valuta le competenze negoziali delle donne, come componente necessaria per la composizione dei conflitti interni, per raggiungere e mantenere le posizioni di vertice e per sviluppare una leadership autorevole. Ci va di sottolinearlo: nel merito e nel metodo la Ricerca scavalca il nodo delle pari opportunità; o meglio, lo comprende e lo supera, perché pone l'intera questione sul piano economico della competitività del Paese e del sistema-Italia tutto, che non solo si deve allineare alle altre nazioni europee anche sul versante della presenza femminile nel mercato del lavoro ma deve individuare fattori di sviluppo. E ogni riflessione diventa cruciale nel contesto della crisi economica globale e della necessaria ricerca di vie d'uscita. La Ricerca individua come una delle "vie di fuga" dalla crisi proprio l'investimento sul potenziale femminile all'interno delle aziende; puntare sulle professionalità femminili produrrebbe secondo i ricercatori una ricaduta positiva, sull'immagine delle aziende nei confronti dei clienti, e dei partner, e dell'opinione pubblica in generale; inoltre contribuirebbe allo sviluppo organizzativo e, quindi, al miglioramento del "clima aziendale interno" determinando un vantaggio competitivo.   Tra gli interventi concreti, ipotizzati dalla Ricerca per un management più femminile, ritorna la "vexata quaestio" delle quote; si propone, infatti, come "estremo rimedio" l'introduzione di quote di genere; in assenza di un vincolo legislativo di tale natura come accade in altri Paesi, a cominciare dalla Norvegia, le imprese su base volontaria potrebbero darsi linee guida e strategie di medio termine, mirate all' incremento delle donne nel top management aziendale, assunto come uno degli elementi di responsabilità sociale d'impresa. Al di là ed oltre la questione delle quote sì o no, quello che è certo è che svegliare "il capitale dormiente", come è stato definito quello femminile, non è più una scelta ma un imperativo necessario; e non è neppure una questione di donne ma una questione di Pil. Esiste un nodo tra occupazione femminile e crescita economica. Più donne nel mercato del lavoro aumenterebbero la competitività del Paese ed il prodotto interno lordo, produrrebbero l'effetto moltiplicatore di altra occupazione femminile (nei servizi di cura ed alla persona) creando un circolo virtuoso. Quello che ci porti definitivamente fuori dalla crisi.  

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