Urge una politica industriale
Silvio Berlusconi lo ha ripetuto anche ieri: «È un inferno governare con questa architettura istituzionale, con una Costituzione che non tutela l'impresa». Il premier si è riferito nuovamente all'articolo 41 che recita così: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Berlusconi non ha torto: proclamare la libertà d'impresa e subito dopo circondarla di caveat e subordinarla all'utilità sociale, è una delle tante codinerie della nostra Carta frutto del clima politico del dopoguerra. Detto senza offesa. Del resto anche l'articolo 1, che determina i principi fondanti della Nazione, dice: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Siamo una democrazia, sì; ma laburista. Abbiamo il potere nelle nostre mani, purché lo esercitiamo entro forme e limiti. Chiunque conosca le prime parole della Costituzione americana sa quanto più potente e chiaro sia il suo messaggio: «Noi, il Popolo degli Stati Uniti». Nel 1787 a Filadelfia si era più avanti che nell'Italia del 1948. Detto questo, non vorremmo che questo nuovo fervore costituzionale diventasse un freno – o un alibi – rispetto alle urgenze del sistema industriale italiano. Per modificare la Costituzione occorre almeno un anno di sfibranti discussioni in Parlamento, senza contare le accuse di golpismo già partite da sinistra. Vale davvero la pena? Nel frattempo il Cavaliere si potrebbe comunque ricordare che ha tuttora l'interim dello Sviluppo industriale: nominare il ministro rimetterebbe in moto i molti dossier che giacciono negli uffici di Via Veneto, dal nucleare (per il quale deve ancora essere costituita l'Agenzia per l'individuazione dei siti) alla semplificazione burocratica per le piccole e medie imprese, promessa e prevista dalla manovra, e che non può essere lasciata all'eterna guerra fra regioni da una parte e Tremonti e Lega dall'altra. In questo momento, poi, ci sono alcune questioni che richiedono un ritorno ad una vera politica industriale, non nel segno del dirigismo ma della presenza sui problemi. La trattativa Fiat-sindacati su Pomigliano non riguarda solo il futuro della produzione automobilistica in Italia (che già è una questione strategica di primo livello), ma se vogliamo giocarci un altro settore portante dell'industria, dopo aver perso la chimica, la telefonia, l'elettronica. Sergio Marchionne ha dato tempo alla Fiom fino a domani per un accordo che avvicini Pomigliano ai livelli di produttività delle fabbriche polacche, e tra non molto a quelle serbe. Auguriamoci che la Cgil, con lo sciopero generale proclamato per il 25 giugno, non trasformi Pomigliano nell'ennesimo fronte politico, utile anche a coprire i propri dissidi interni. Se il Lingotto, come ha detto Marchionne, può andare a costruire altrove le Panda, né il governo né il Paese possono restare indifferenti. Un altro dossier è la vicenda Finmeccanica. Abbiamo già evidenziato il rischio che uno dei pochi residui gruppi competitivi nel mondo resti ostaggio del “pozzo dei veleni”. Non è un problema di questo o quel manager, è un affare dell'Italia. Così come il governo e la politica farebbero bene a gettare un occhio sulla Telecom: un tempo, quando era pubblica e si chiamava Stet, era un fiore all'occhiello tecnologico e produttivo. La prima mazzata gliela dette la privatizzazione attuata da Romano Prodi con il sistema del nocciolino. Da allora la Telecom è privata, ma in ogni successivo passaggio di mano ha ridotto quote di mercato e aumentato i debiti. Ora è ad un passo dall'essere scavalcata in Italia dalla Vodafone. Ed è soprattutto a corto di strategie. Il governo che cosa può fare? Forse riportare in mano pubblica almeno le infrastrutture per la banda larga, se come si dice in ogni convegno siamo davvero convinti che da lì passino tecnologia, lavoro e ritorni economici. Il modello non manca, e lo si è attuato attraverso una liberalizzazione: quella dell'elettricità con la Terna. Qualche sera fa abbiamo invece ascoltato il segretario del Pd Pierluigi Bersani, nella sua attuale versione di novello Robespierre, vantarsi di aver fatto “lo spezzatino dell'Enel”. Evitiamo che qualcuno completi l'opera su altri fronti; a forza di spezzatini resterà la poltiglia. Che appunto nel frullatore finisca il nucleare, una delle poche decisioni di politica industriale degli ultimi anni. Non lasciamo a languire le infrastrutture, altra coraggiosa scelta strategica. E guardiamo a ciò che sta accadendo a Berlino e Parigi: anche in tempi di crisi – o forse proprio grazie all'euro debole –Germania e Francia intensificano i grandi business e la competizione sull'export. Sono i nostri diretti concorrenti, benché partner. Dunque un invito al centrodestra, al governo e Berlusconi: va bene puntare l'indice sulla Costituzione; ma intanto decisioni rapide, magari volando un po' più basso.