Si specula sulla debolezza europea
Se non abbiamo capito male, finirà così: l'Europa pagherà con il suo welfare il prezzo della speculazione di Wall Street. Che questo welfare – previdenza, sanità, tutele sociali, pubblico impiego – fosse da tempo insostenibile, o per dirla con Berlusconi «vivessimo sopra le nostre possibilità», è probabile, anzi certo. Che però le manovre di bilancio che tutti i governi stanno approntando in grande fretta abbiano a che fare con rischi di default come quello temuto per la Grecia, e perfino con gli stessi debiti pubblici dei vari Paesi, è ampiamente da dimostrare. Per ora i fatti dicono esattamente il contrario. Se è vero che questa crisi non nasce all'interno dell'Europa ma nella finanza globalizzata, ed è dunque una sorta di girone di ritorno del 2008-2009, osserviamo che dopo l'esplosione della bolla speculativa dei subprime e il fallimento della Lehman Brothers, dal marzo 2009 fino ai primi giorni di quest'anno i mercati hanno non corso, ma galoppato. Mentre la vittoria dei socialisti ad Atene e la denuncia dei conti pubblici truccati è dell'ottobre scorso. Quanto all'entità del contagio greco, basta ricordare che il Pil è pari a 260 miliardi di euro: a titolo di paragone gli asset totali della Deutsche Bank nel 2009 sono stati di 1.670 miliardi. Ciò che ha scatenato la speculazione, non contro la Grecia ma contro il ben più sostanzioso obiettivo dell'euro, sono stati i balbettii delle autorità comunitarie nell'affrontare un problema secondario come quello greco. Tutti ricordano le diatribe tra Francia e Germania su chi e come dovesse intervenire, o se si dovesse mollare il governo di Atene al suo destino. È stato a questo punto che Soros, Paulson e gli altri strateghi della speculazione hanno concertato il loro attacco all'Europa. E lo hanno potuto fare forti di una serie di straordinarie circostanze: 1) non aver pagato dazio dopo le crisi bancarie del 2008-2009, nonostante i solenni impegni moralizzatori di Barack Obama ed Angela Merkel, anzi, essendosi rafforzati con i capitali pubblici messi nelle banche da Usa, Germania, Francia e Inghilterra; 2) avere individuato la possibilità di rifarsi delle perdite subite due anni prima con un'offensiva speculativa senza precedenti; 3) aver capito che l'Europa è un gigante con i piedi d'argilla. La sua struttura politica e finanziaria è fatta di economie concorrenti, ma soprattutto ad essere in concorrenza sono i titoli pubblici che dovrebbero sorreggere la moneta unica. La debolezza dei Btp significa automaticamente la forza dei Bund e viceversa, come vediamo in queste ore. In tutta questa storia i debiti degli Stati c'entrano relativamente. La Spagna è a rischio avendo un debito del 66% del Pil, la Francia e il Belgio sono ritenuti al riparo con debiti dell'83 e del 101 per cento. L'Italia è nel guado con il 116 per cento. Certo, con i parametri di Maastricht tutti dovrebbero stare entro il 60 o almeno tendervi: ma chi ci riesce tra i big? Neppure la Germania con il suo 79%. La realtà è che attaccare la speculazione con le manovre di finanza pubblica o con le stesse riserve delle banche centrali è un po' come la guerra del Vietnam: schierare l'artiglieria pesante contro la guerriglia; e tutti sappiamo come andò a finire. Naturalmente non si possono neppure ignorare mercati di borsa che ogni giorno assomigliano a bollettini di guerra: la sensazione, però, è che i governi occidentali (la Cina se ne sta per ora significativamente in disparte), sotto l'apparente concordia e i proclami dei vari G8, stiano cercando di regolare i conti tra euro e dollaro rimasti in sospeso nei due anni precedenti, e di rientrare dall'enorme liquidità pubblica usata per salvare le banche – soprattutto da Germania, Francia e Inghilterra – o utilizzata come paracadute sociale, come l'Italia. La manovra varata da Giulio Tremonti va a parare sugli unici bersagli a disposizione, che non a caso sono gli stessi degli altri governi: l'impiego pubblico, i comuni, le regioni, la sanità. Certo, ci sono le promesse di una stretta sull'evasione fiscale e sui famosi costi della politica. Le verificheremo. Quanto al congelamento degli stipendi dei ministeri, Tremonti si fa forte del fatto che negli ultimi dieci anni le loro retribuzioni reali sono cresciute di quasi il doppio (il 42,5% rispetto al 24,8%) del settore privato, grazie ad automatismi di carriera e indicizzazioni. E riguardo a regioni e comuni, è vero che ce ne sono di virtuosi e spendaccioni, e che inoltre la Sicilia – con il suo statuto speciale - è un po' la nostra Grecia. E dunque cambiare si deve. Ma perché non si è agito prima, in tempi di tranquillità economica, quando oltre a tagliare sarebbe stato possibile anche investire? Il vero problema di queste manovre – non solo dell'Italia, perché sono tutte simili, e tutte incidono appunto nelle aree tipiche del welfare – è che vengono al termine di due anni di economia allo stremo, e rischiano di tagliare le ali già fragili della ripresa. Eppure oggi, a differenza del 2009, i mercati sono invasi da liquidità a tassi bassi e piatti. Sarebbe questo il momento per accompagnare alla formula «rigore ed equità» anche un po' sviluppo. Per emettere a livello europeo bond e titoli al riparo dalla speculazione destinati a finanziare le infrastrutture del continente. O, per guardare all'Italia, per imitare ciò che si è fatto con la Grecia: prestiti «a surroga» triennali o quinquennali al 5 per cento sarebbero un sollievo per molti enti locali, ma anche un ottimo affare per lo Stato. Stiamo discutendo dei dialetti nella scuola: non sarebbe l'occasione per imporre viceversa il bilinguismo con l'inglese obbligatorio, sull'esempio di quanto fatto anni fa dall'Olanda e dai paesi scandinavi? Diversamente avremo raschiato il barile, in Italia e in Europa, ma senza aver proposto nulla in grado di cambiare davvero il vecchio volto del Paese e del continente, e di dare una speranza a giovani e famiglie.