Grecia, l'ultima balla della Sinistra
E nel Pd è partita la caccia a Bersani
Questa è davvero bella e non l'avevamo ancora sentita: le radici profonde dell'attuale crisi greca non sarebbero tanto di natura economica e speculativa quanto piuttosto di natura storica e culturale. I mali della Grecia, in sostanza, deriverebbero dal fatto che essa non avrebbe vissuto la "catarsi del dopoguerra", non avrebbe saputo trarre "vigore dalla resistenza al nazifascismo" e sarebbe stata costretta per decenni a svolgere la funzione di "guarnigione della Nato" al fine di consentire la "dilatazione" del "potere militare abnorme" degli Stati Uniti impegnati a combattere la guerra fredda attraverso il sostegno alle dittature militari e la distruzione della "energie della Resistenza". Tutto ciò avrebbe fatto venir meno il senso dello Stato e alimentato una sfiducia nelle leggi dimostrata dalle reazioni dei cittadini alle decisioni governative. Questa dotta interpretazione della crisi greca, e delle sue conseguenze, è dovuta alla penna di Barbara Spinelli, ed è contenuta nella sua abituale articolessa domenicale, apparsa ieri su "La Stampa". L'obiettivo ultimo, però, del discorso dell'autrice non è già la spiegazione della crisi greca ma il tentativo di stabilire un improponibile parallelo tra la Grecia e l'Italia, fra Atene e Roma, fra due paesi, a suo dire, caratterizzati da affinità "impressionanti" quanto a disprezzo delle istituzioni pubbliche, mancanza di civismo e di senso della legalità. Anche per l'Italia, come per la Grecia, infatti, le responsabilità ricadrebbero (l'articolo, pur non dicendolo esplicitamente, lo lascia intendere) sulle spalle di chi - leggi gli Stati Uniti - avrebbe contribuito alla nascita nel nostro paese di una Repubblica fin dall'inizio contaminata dalla corruzione, caratterizzata dall'esistenza di uno "Stato parallelo e incontrollato", segnata da collusioni occulte e da contiguità strutturali fra politica e malavita. Tutto ciò avrebbe determinato da noi un collasso morale dal quale appare difficile risalire come dimostrerebbero, per un verso, i timori della sinistra e, soprattutto, le difficoltà della nascita di "una destra autentica", quella di Fini, impegnata a fabbricare il futuro. Non varrebbe la pena di soffermarsi, più di tanto, sui funambolismi intellettuali della Spinelli se essi non fossero paradigmatici del modo di ragionare (o sragionare) dei maître à penser e dei politici della sinistra nostrana preoccupati solo di leggere gli avvenimenti in chiave ideologica e moralistica, ma incapaci di agire e di proporre ricette concrete per affrontare i temi forti della politica. Incrollabili nelle loro certezze, sono incapaci di autocritica pur di fronte alle smentite della storia. Così, per esempio, la Spinelli può evocare il ricordo del "doppio Stato" - una categoria cara alla cultura vetero-marxista e complottista ma senza nessuna consistenza storiografica - per spiegare la debolezza etico-politica del popolo italiano. Così può presentare Fini come espressione di una "destra autentica", da considerasi naturalmente sempre avversaria della sinistra, solo perché e nella misura in cui il leader della ex An mostra di aver messo da una parte valori, principi, patrimonio storico e ideale della destra italiana. L'articolo della Spinelli è, insomma, emblematico dei tormenti della sinistra italiana priva di idee che non siano quelle, insulse e fatiscenti, mutuate dall'incontro della cultura marxista e di quella azionista in nome di un neoilluminismo dogmatico che, per esistere, ha bisogno di richiamare i fantasmi del passato. Esso fa comprendere, ancora, come in Italia la sinistra attuale, prigioniera di pregiudizi ideologici e di moralismo acritico, sia incapace di pensare davvero in termini politici. Se è vero quello che disse Alcide De Gasperi, all'alba della nostra storia repubblicana, in un discorso tenuto a Milano il 23 aprile 1949 - e cioè che fare politica significa realizzare - allora è anche vero che questa sinistra è non solo fuori della storia ma anche della politica. I suoi esponenti - si tratti di intellettuali o di politici - non sono in grado di fare una proposta concreta, di elaborare un programma realistico, di mostrare un guizzo di inventiva. Si limitano a demonizzare l'avversario accusandolo di tutte le nefandezze possibili e immaginabili, denigrando l'immagine del paese con la legittimazione data agli insulti di guitti d'avanspettacolo o di comici che fanno piangere anziché ridere. Non sanno far altro che tornare - come ha suggerito Walter Veltroni nei giorni scorsi - all'idea, già rivelatasi fallimentare, del cosiddetto "partito a vocazione maggioritaria". Sono, al fondo, portatori di una debolezza antropologica che li conduce a continue lamentazioni contro il destino cinico e baro e li condanna a soccombere di fronte alla politica vera, in particolare all'empirismo realizzatore del quale Berlusconi, piaccia o non piaccia, continua a essere espressione.