Atene scoppia, occhio al portafoglio
Borse ancora giù, in fumo altri 183 mld
Contrordine: l'Italia non è più a rischio, «non è stata tra i Paesi più esposti durante la crisi finanziaria globale» e non lo è «neppure ora che essa si trasforma in crisi del debito pubblico». Tradotto, non siamo più esposti di altri al contagio greco; anzi. Conclusione: «Il rating italiano resta invariato e l'outlook – le prospettive – per il 2010 rimane stabile». Lo hanno spiegato ieri a Milano i responsabili di Moody's. Quegli stessi che 24 ore prima, a mercati aperti, avevano diffuso un rapporto che indicava il sistema bancario italiano, assieme a quelli di Spagna, Portogallo e Gran Bretagna, come particolarmente rischioso. Il risultato è ovvio: piazza Affari, che giovedì aveva chiuso a meno 4,2% e con perdite sui bancari tra il 5 e il 10, ieri ha prima recuperato poi è di nuovo sprofondata, quindi è ancora risalita. Stessi risultati sulle altre borse mondiali. Chi ha intascato la differenza? Poiché nel business vale la massima filosofica di duemila anni fa, e cioè che nulla si crea e nulla si distrugge ma tutto si trasforma, è certo che da qualche parte quei capitali sono finiti o finiranno nelle prossime settimane. I controllori delle borse, la nostra Consob e la ben più potente Sec americana, hanno avviato le loro indagini per capire se vi sia stata turbativa, o peggio, dei mercati. Moody's ha molti strumenti e plotoni di legali per difendersi: come Mario Sechi ha dettagliatamente spiegato ieri su queste pagine, assieme alle altre due sorelle del rating - Standard & Poor's e Ficht – l'ha sempre fatta franca nonostante le abbondanti impronte digitali lasciate sulla crisi del 2008-2009, nonché su varie altre emergenze, a cominciare da quella che per oltre dieci anni ha messo in ginocchio una potenza economica come il Giappone. E se la speculazione ha piegato Tokyo e New York, figuriamoci che cosa sarà capace con Atene, Madrid, Roma ed anche Parigi, Londra e Berlino. Dunque, occhio al portafoglio. E attenzione non tanto e non solo alle borse, dove in fondo salgono e scendono i capitali di rischio. Guardate invece agli investimenti più prudenti e garantiti: obbligazioni e titoli di Stato. Perché è ormai lì, in un mondo dove non c'è Sec che tenga, che gli speculatori si muovono come squali nei fondali profondi. L'8 febbraio scorso, in una townhouse di Manhattan, un gruppo di finanzieri ha pianificato strategie precise per indebolire l'euro e portarlo ad un rapporto di parità con il dollaro. Tra loro, George Soros (chissà perché tanto apprezzato dalla sinistra italiana e mondiale quale «capitalista etico»), John Paulson, Steven Cohen, David Einhorn, Donald Morgan e Andy Monness: la crema degli hedge fund, gli strumenti più speculativi che esistano. Dopo pochi giorni la McGraw-Hill, il colosso delle pubblicazioni economico-scientifiche americane, finanziatore di università e master, mecenate di economisti, ma soprattutto azionista proprio di Standard & Poor's, ha iniziato a declassare i paesi deboli dell'ex «Club Med», la fascia mediterranea dell'Europa: Grecia, Spagna, Portogallo. E l'Italia? Quello di giovedì lo possiamo considerare un primo assaggio; siamo comunque nel mirino. Qui è bene essere chiari: probabilmente non c'è nulla, o quasi, di platealmente illegale in tutto ciò; neppure la speculazione è un reato. Caso mai, almeno secondo le leggi americane, gli aspetti-chiave sono due: il diffondere le notizie a mercati aperti (ma come è possibile controllarle con le borse in funzione 24 ore su 24?) e soprattutto il fatto che questi fondi si muovano come trust: cartelli organizzati. Secondo punto da chiarire: il bersaglio della speculazione non è la Grecia, che sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, e neppure l'Italia, un obiettivo minore. Il bersaglio è l'euro. Come nel '92 toccò alla sterlina e per tutti gli anni Novanta allo yen. E l'euro è potenzialmente molto più debole delle altre grandi valute mondiali perché ha al proprio interno economie forti ed economie fiacche, governanti capaci assieme a premier e ministri inetti, ma soprattutto soffre di un micidiale vizio di origine: è composto da un grande paniere di titoli pubblici e obbligazioni tutti in concorrenza tra loro. Quando i Btp italiani si indeboliscono i Bund tedeschi si rafforzano, e viceversa. A loro volta, Btp e Bund, come gli Oat francesi, rispecchiano il cosiddetto rischio paese, e questo è ancora un dato tutto sommato oggettivo. Ma come la mettiamo quando si comincia a parlare, in documenti ufficiali come quello di Moody's, di un elemento impalpabile come il «rischio contagio»? Con quali termometri si misura il contagio? Se si fa riferimento al credito, la Banca dei regolamenti internazionali – un'istituto controllato da 59 banche centrali e di sicura attendibilità – indica un'esposizione totale delle banche europee verso la Grecia di 150 miliardi di euro, tra prestiti diretti e obbligazioni ateniesi in portafoglio; così suddivisa: Francia 57 miliardi, Germania 34, Gran Bretagna 12, Olanda 9, Italia 5,2 miliardi. Prima domanda: perché Moody's ha indicato le banche italiane, spagnole, portoghesi e inglesi come le più esposte al rischio-Grecia, e non invece quelle francesi, tedesche, olandesi e inglesi? Seconda domanda: perché Moody's e le sue consorelle non prendono in considerazione anche i miliardi di euro, sterline e dollari di aiuti pubblici infilati nelle banche dai vari governi? In entrambi i casi la risposta presenta una singolare coincidenza: Germania, Francia, Gran Bretagna e Olanda – e non Italia, Spagna e Portogallo – sono i paesi che hanno dato alle banche i soldi dei contribuenti. E naturalmente ci sono poi le semi-nazionalizzazioni operate da Barack Obama con Fannie Mae e Freddie Mac fino alla Citibank. Solo che non è possibile attaccare direttamente Berlino, Parigi e forse neppure Amsterdam. Se si vuole svalutare l'euro non occorre prendere di petto il Bund tedesco o l'Oat francese; al contrario è molto meglio aumentare gli spread tra i Bund ed i Btp, o tra i Bund ad i Bonos spagnoli, e poi far schizzare alle stelle il valore dei Cds (credit default swaps, l'assicurazione sul debito), magari precedentemente acquistati a prezzi tranquilli. Con questo sistema si ottengono tre risultati: si indebolisce l'euro; si fa calare il valore di mercato dei titoli cosiddetti periferici – Btp e Bonos, appunto – inducendo gli investitori istituzionali a vendere e gli stati ad aumentare i rendimenti; si realizza ai massimi sui Cds. Il tutto al prezzo di poche righe on line. Non male, no? Ovviamente i rimedi non mancherebbero. Più decisionismo, rapidità e credibilità da parte dei governanti e delle istituzioni europee, innanzi tutto. Strumenti di controllo comunitario che rimpiazzino i famigerati rating; e autorità che si diano come compito primario non solo la guerra all'inflazione o il pareggio di bilancio, ma anche quella più sofisticata alla speculazione. E, probabilmente, sarebbe stato molto meglio anche avere un euro più ristretto: l'Italia c'è entrata per il rotto della cuffia, figuriamoci la Grecia o il Portogallo. Per la terza cosa è tardi. Per le prime due forse no. Nel frattempo, occhio al portafoglio. Anche per gli investimenti più sicuri. È a quelli, non alle azioni, che mirano gli speculatori: dunque teneteveli stretti, senza panico. Secondo la vecchia massima «compra sui ribassi, vendi sui rialzi». O anche «compra sulle voci, vendi sui fatti».