Il mondo corre l'Europa si accontenta di guardare
Afuria e misura di studiare minuziosamente il nostro ombelico, abbiamo perso l'abitudine di valutare le grandi trasformazioni mondiali. Solo poche settimane fa il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, acutamente osservava davanti all'assemblea della Confindustria che: «In positivo e in negativo, perché tutto è relativo, sono cambiate la struttura e la velocità del mondo e, nel mondo, dell'Italia. Caduto il muro di Berlino, unificato con il Wto il mondo in un'unica nuova geografia e ideologia mercantili, in questa nuova latitudine il vettore della storia ha compiuto un movimento rivoluzionario, passando dall'Atlantico al Pacifico. La scoperta economica dell'Asia ha prodotto effetti rivoluzionari uguali a quelli prodotti dalla scoperta geografica dell'America. Solo che per questi ci sono voluti 2 secoli. Per la globalizzazione sono bastati 2 decenni». Lo psicodramma greco ha evidenziato l'impossibilità di risolvere i gravi squilibri macroeconomici, a cominciare dal degrado delle finanze pubbliche, senza affrontare la sfida globale del debito, che è diventato debito sovrano. Con la globalizzazione il modello europeo è divenuto desueto e il posto dell'Europa nella governance mondiale appare incerto. Il problema non è l'Italia, e la crisi profonda che attraversano da un lato Grecia, Portogallo e Spagna, e dall'altra Gran Bretagna e Irlanda, è là a dimostrarlo. Il problema è che non ci sono uscite meramente nazionali nella società mondializzata e che l'Europa, molto presa dalle sue discussioni interne, continua a fissare l'albero senza scorgere la foresta. La politica, e quindi la stampa, non ha preso in considerazione la segnalazione della diplomazia di alcuni campanelli d'allarme come la conclusione della Conferenza sul clima a Copenhagen, dove sono state assunte decisioni, per la prima volta, in assenza degli europei dalla sala, oppure i continui cambiamenti dei calendari delle visite di Obama oggi in Spagna, ieri in Italia e in Francia, domani da qualche altra parte; la cena del presidente statunitense a Praga con i paesi dell'est europeo, piuttosto che con i rappresentanti dell'Unione, non è una gaffe ma una voluta indicazione di superiorità. Il mondo corre e l'Europa discute, ma le macchine non marciano a parole. Nei prossimi trenta anni gli europei rappresenteranno a malapena il 6% della popolazione mondiale e, senza modifiche delle attuali politiche, appena il 12% del Pil mondiale. Per evitare di aggiungere chiacchiere all'aria è bene concentrarsi sulle cose possibili da compiere. Tra queste vi è il Servizio europeo di azione esterna, disgraziatamente affidato alla britannica baronessa laburista Catherine Ashton, che non ha la statura politica necessaria per difendere il ruolo del "ministero degli Esteri" d'Europa, collocato con anglosassone alterigia tra il Consiglio e la Commissione, ignorando il Parlamento che minaccia di usare il suo diritto di veto in materia di budget e di statuto del personale diplomatico. Quanto basta per bloccare l'Europa intera. Invece di discutere in eterno non è meglio ringraziare la baronessa per i servigi fin qui resi e chiamare qualcun altro a ricoprire un ruolo così importante?