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Svolta Geronzi

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(...)sorridere non per il loro provincialismo (che pure c'è), e per lo spreco di luoghi comuni (ancora più massiccio), ma per la evidente trasparenza degli interessi che vorrebbero coprire in nome di un non meglio precisato interesse comune, e di una ancora meno precisata etica della finanza. Repubblica parte lancia in resta contro la «gattopardesca manovra berlusconiana» che dovrebbe nientemeno trasformare le Generali, ed i 400 miliardi di polizze che hanno in cassaforte, nel «braccio armato del governo di Roma per supportare le operazione più sensibili dei sedicenti campioni nazionali». Peccato che il documentato schema che accompagna l'editoriale del quotidiano di Carlo De Benedetti ometta di citare, tra le controllate delle Generali (o forse tra i campioni nazionali?) proprio il gruppo Espresso-Repubblica. Citazione d'obbligo invece per la Rcs, ovvero il Corriere della Sera, la cui reazione si potrebbe sintetizzare in un «si vedrà». Se non fosse che anche il quotidiano di via Solferino indulge nel descrivere la scelta come «più simile a quanto avviene nel totonomine della politica». C'è da sorridere, appunto, pensando ai due-editoriali-due dedicati nei giorni scorsi dal Financial Times – di proprietà del gruppo Pearson, in storici rapporti con De Benedetti - al tentativo di prorogare il mandato di Antoine Bernheim ed impallinare la candidatura di Geronzi, o perché «troppo anziano» (Bernheim ha 12 anni di più) o perché «troppo vicino ai salotti politici romani». Questa romanità di Geronzi sembra ossessionare i cultori di quella che un tempo veniva definita con mistica reverenza «galassia del Nord» o «finanza laica». Sembra di tornare agli anni Settanta, ai tempi del patto di separazione tra politica e finanza: la prima alla Dc e la seconda «affidata» alle cure sacerdotali di Ugo la Malfa ed Enrico Cuccia. Senonché qualcuno deve aver dimenticato che nella famosa galassia del Nord, e relativi giochi azionari, Cuccia e Mediobanca disponevano a piacimento delle banche dell'Iri, che erano pubbliche e per un terzo romane. E guai a chi ne chiedeva conto. A scontrarsi con Cuccia su questo punto non furono due berlusconiani ante litteram, ma Cesare Merzagora (presidente del Senato e poi proprio delle Generali) e successivamente un certo Romano Prodi. I danni prodotti da quella divisione a tavolino degli asset strategici del Paese - la finanza di là, la politica di qua – si sono perpetuati fino ad oggi, e sono risultati più evidenti con la grande crisi mondiale. Aziende sottocapitalizzate ma iper-finanziarizzate e distratte dal loro business, come è stata a lungo la Fiat, e successivamente la Telecom. Intrecci azionari incestuosi e chiari solo a pochi eletti. Ma soprattutto un muro di incomunicabilità tra i governi – di qualunque colore – e le imprese pubbliche da una parte, e l'industria e la finanza privata dall'altra. Le seconde tutte buone, le prime tutte cattive. La crisi globale ha mostrato che la finanza e l'industria non possono fare a meno della politica, e che naturalmente la politica deve rispettare il mercato ma al tempo stesso pretenderne chiarezza visto che sono in ballo i risparmi e gli aiuti elargiti con il denaro dei contribuenti. E' quello che in tutto il mondo si chiama capacità di fare sistema. In questo quadro, l'Italia non è affatto messa peggio di altri, come sembrerebbe dal dito alzato di paludatissimi quotidiani, italiani e non. Banche e assicurazioni non hanno avuto bisogno del sussidio pubblico, e le Generali possono su questo vantare un primato europeo, visto che Allianz e Axa – i due gruppi che le scavalcano nella graduatoria continentale – sono in qualche misura ricorsi alle cure di Angela Merkel e di Nicolas Sarkozy. Le aziende del Tesoro - Eni, Enel, Finmeccanica, Terna - si presentano oggi più forti e soprattutto più patrimonializzate delle colleghe private. Certo, in varia misura sono esposte sul debito; ma il loro rating è ottimo e gli investitori, a cominciare dalle famiglie, non mancano. Il settore edilizio e delle infrastrutture non è stato drogato come nella Spagna zapaterista, ed oggi è un'opportunità, non un problema. Merita sottolinearlo, dal momento che tra i titoli di demerito di Geronzi ci sarebbe, secondo alcuni, di essere troppo vicino ai «costruttori romani»: riferimento ai suoi buoni rapporti con Francesco Gaetano Caltagirone, ma non solo. In questa situazione avere alla testa delle Generali un uomo come Geronzi, che ha sempre apertamente ricercato i buoni rapporti con la politica – non solo con la Dc ed oggi con Gianni Letta e Silvio Berlusconi, ma anche con esponenti della sinistra come Massimo D'Alema, - non è un pericolo ma una garanzia. Tanto più adesso che sembra finalmente instaurarsi una collaborazione tra le fondazioni del Nord (cioè i padroni delle banche), un ministro poliedrico come Giulio Tremonti, e, diciamolo, quella finanza romana che ad alcuni pare inadatta a sedersi a tavola: giusto per sfatare qualche altro luogo comune, da almeno cinque anni il Pil del Lazio è secondo dopo la Lombardia, e quello procapite è terzo solo per l'imbattibile concorrenza dell'Alto Adige. Se questo è il famoso «fare sistema», che sia benvenuto. E se viene affidato all'esperienza di lungo corso del «banchiere di Marino», meglio ancora. Marlowe

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