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L'Italia del Ft è sbagliata

Il ministro Tremonti e il governatore Bankitalia, Draghi

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{{IMG_SX}}Il Financial Times di ieri si occupa ampiamente di cose italiane, spaziando dagli investimenti in derivati di regioni e comuni (un'intera pagina con richiamo in prima: «Spaghetti swaps») alla successione al vertice delle Generali, fino al ruolo di Giulio Tremonti nel definire i possibili - e al momento futuribili - strumenti di intervento europei in situazioni tipo Grecia. Tanta attenzione può lusingare, ma al tempo stesso ci fa drizzare le antenne. Primo perché non sempre la stampa anglosassone comprende le cose italiane: basta pensare al famoso «Why Silvio Berlusconi is unfit to lead Italy», la scomunica emessa nel 2001 dall'Economist, ed il Cavaliere è ancora lì a palazzo Chigi. Secondo motivo, non sempre la stampa anglosassone è come una molti la immaginano: austera, indipendente, lontana dai giochi di potere. Il boom di derivati e strumenti a rischio con i quali gli enti locali si sono finanziati negli ultimi anni è un fenomeno ben noto e preoccupa non poco, per esempio, Giulio Tremonti. L'importo totale è passato da 59 miliardi di dollari del 2001 a 342 del 2008. Il fenomeno non ha colore politico, e riguarda regioni e comuni rossi, azzurri e bianchi. Ciò che stupisce un po' sul Ft sono due cose. La prima: la faccenda viene definita «embarassing for Italy», e forse lo è. Ma che dire, per esempio, del fatto che la Gran Bretagna sia esposta per oltre 250 miliardi di dollari (un record europeo) verso il debito pubblico spagnolo, un rischio ben maggiore rispetto alla Grecia ed ai derivati italiani? O che le banche inglesi abbiano generosamente finanziato la bolla edilizia di Zapatero, che ora grava sull'economia iberica e dell'intera Europa? Non è ancora più «embarassing?». Secondo motivo di stupore: vi si racconta come le banche d'affari di mezzo mondo abbiano «hooked», arpionato con i derivati le autorità locali italiane. Ora, di fronte alle lentezze nel pagamento degli interessi, gli «hookers» minaccerebbero il ricorso a tribunali o arbitrati. Ma chi viene chiamato a testimoniare l'accaduto? Domenico Siniscalco, top manager della Morgan Stanley, prossimo ad essere eletto presidente dell'Assogestioni. Fuori di dubbio la sua competenza, ma siamo sicuri che sia la fonte più imparziale? La polpa, per così dire, viene però a pagina 16, con un editoriale di Paul Betts, commentatore finanziario per l'Europa con base a Parigi. Titolo: «Potrebbe Mario Draghi essere la polizza d'assicurazione delle Generali?». Il succo dell'articolo è: si sta per rinnovare il vertice del gruppo assicurativo del Leone ed il candidato alla presidenza Cesare Geronzi, attuale numero uno di Mediobanca (primo azionista di Generali), è considerato anche lui «unfit» dal Financial Times. Soluzione: prorogare il mandato dell'attuale presidente Antoine Barnheim, e poi organizzare una staffetta tra l'ottantacinquenne francese e il governatore di Bankitalia. «Ovviamente se fallisse nel suo tentativo di diventare capo della Bce». Questa ipotesi, assicura Betts, «avrebbe facilmente il sostegno di Tremonti e perfino di Barnheim». Riguardo a quest'ultimo, prendiamo in parola il quotidiano della City. Ma Tremonti che c'entra? Il Tesoro è azionista delle Generali? Il Ft riconosce di no. Ma il ministro «soddisfatto per la stabilità del vertice delle Generali, che ha garantito buoni risultati durante la crisi» sarebbe viceversa preoccupato «perché Mediobanca, con o senza Geronzi, passa troppo tempo ad occuparsi del gruppo assicurativo di Trieste e non abbastanza a definire un modello competitivo per il proprio business bancario». Strano: Mediobanca ha appena presentato l'utile di metà esercizio, con profitti triplicati rispetto ad un anno fa. Né ci risulta che il ministro dell'Economia sia preoccupato per la banca d'affari milanese, e tanto meno che faccia il tifo per una conferma di Barnheim alle Generali. Quanto all'idea che ci vada Mario Draghi, beh, perfino uno come Tremonti la considererebbe quanto meno riduttiva per il governatore, che in fondo è stato top manager della Goldman Sachs per l'Europa. Dunque? Ciò che è certa è la «special attention» che il Ft dedica alla vicenda Generali. Giorni fa aveva criticato come «gerontocratica» l'ipotesi di successione di Geronzi a Barnheim, suggerendo di affidare a «cacciatori di teste» la scelta del presidente. Poi, accortosi che Geronzi ha dieci anni meno di Barnheim, ha imboccato tutt'altra direzione: altro che «headhunters», mettiamoci Draghi (dopo conferma di Barnheim). Forse la spiegazione non va cercata nelle Generali, ma in Mediobanca, che del Leone è primo azionista; e, con il nuovo sistema del voto per liste – maggioranza e minoranza – decisa a far valere i propri diritti. Magari a scapito dell'azionista numero due dietro l'asse Madiobanca-Unicredit. Ovvero il finanziere bretone Vincent Bolloré. Finora sponsor di Bernheim. Ufficio a Parigi: come Bernheim, e come Betts.

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