La corsa di Draghi e i colpi bassi per la Bce
Il primo vero colpo basso nella corsa alla presidenza della Bce, Mario Draghi lo ha parato in scioltezza: nel 2001, quando la Grecia organizzò con la Goldman Sachs operazioni di ingegneria valutaria - "currency swaps" - per imbellettare i conti pubblici, lui non era ancora approdato ai vertici della banca d'affari americana. E quando vi arrivò nel 2002 si occupò di tutt'altri dossier. Il governatore di Bankitalia, dunque, non c'entra con i magheggi contabili che fanno traballare l'euro e le istituzioni comunitarie. C'è però un altro fascicolo, più distante nel tempo e lontano dai riflettori, che riguarda l'Italia: il contratto di currency swap stipulato nel 1996-'97 con la JP Morgan, tradizionalmente advisor del Tesoro americano, e che il governo di allora chiese nel disperato tentativo di non restare escluso dalla moneta unica. Draghi era direttore generale del Tesoro; solo un tecnico, sia pure di altissimo livello. Ma la vicenda e i contorni, ripercorsi attraverso documenti finora rimasti in qualche cassetto, può mettere in imbarazzo i suoi superiori politici: Romano Prodi, presidente del Consiglio; Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro; Vincenzo Visco, ministro delle Finanze. E appanna la lucentezza della medaglia che l'Ulivo si mise al petto: l'ingresso nell'euro, appunto. Un dossier di 19 cartelle datato Lussemburgo 22 aprile 1998, e redatto dalla Task force sull'Unione Economica e Monetaria del Parlamento europeo diretta dall'inglese Ben Patterson, esamina il comportamento del governo Prodi in vista della decisione che i leader dell'Unione avrebbero preso da lì a pochi giorni, il 3 maggio. E cioè la lista dei paesi da ammettere nella moneta unica, la terza fase dell'Uem operativa dal gennaio 1999. Un atto che richiedeva l'approvazione dell'Europarlamento, il quale affidò alla task force vari dossier, tra cui quello sull'Italia redatto da due esperti indipendenti, Cristiano Abbate e Federica Ghirlandini. Il documento nota come il governo Prodi, in carica dal 17 maggio '96, «sostiene con vigore la partecipazione dell'Italia alla terza fase dell'Unione monetaria fin dal suo inizio», ma opera «un brusco cambiamento di politica economica nel settembre 1996. Difatti l'originario Documento di programmazione, approvato a luglio, rinviava al 1998 l'obiettivo della riduzione del deficit al 3 per cento del Pil». Spiegazione: «A metà settembre si sono verificati due eventi che hanno sconvolto i piani del governo italiano». E cioè: «Dal summit franco-tedesco di Kempten è emersa la forte determinazione dei due paesi di perseguire politiche fiscali e monetarie restrittive. Al summit italo-spagnolo di Valencia il presidente Prodi non è riuscito a convincere il primo ministro spagnolo Aznar a formare un asse mediterraneo opposto al nocciolo duro franco-tedesco, per ritardare la terza fase dell'Uem». Vicenda in parte nota, quella del pressing di Prodi su Aznar per convincerlo (con il Portogallo) a bloccare l'euro; vicenda sempre minimizzata dal Professore. Di fatto l'Italia fu costretta a una corsa contro il tempo per centrare i parametri richiesti. Al rientro da Valencia, Prodi, Ciampi e Visco vararono una manovra-bis da 62.500 miliardi di lire, che si aggiungevano ai 32.400 già approvati. Ma non bastava. Il 30 dicembre ‘96 fu approvata con decreto la famosa Eurotassa: 4.330 miliardi di lire prelevati agli italiani, dietro promessa di restituzione nel ‘99: che avvenne al 60 per cento, e assieme all'istituzione di addizionali Irpef. L'Eurotassa è nota a tutti. Sconosciuto era invece il currency swap stipulato con JP Morgan, e del quale affiorano ora i dettagli: alcuni paradossali. Nel 1995 il Tesoro aveva lanciato un bond in yen da 10,3 miliardi, con la valuta giapponese a 19,3 lire. A fine ‘96 lo yen era sceso a 13,4 lire. Prodi e Ciampi tentarono di capitalizzare il guadagno proponendo a JP Morgan la cessione del debito residuo che sarebbe così uscito dalla contabilità nazionale. Ma la banca impose due clausole onerose: prendersi lo swap “prezzandolo” al valore di emissione dello yen, ed imporvi un interesse alto per le obbligazioni statali a lungo termine (1,6 punti sotto il tasso Libor). L'Italia dovette accettare. Secondo fonti ufficiose del Tesoro, riuscì a ridurre il debito 1996 dello 0,02 per cento, circa 170 miliardi. Un'inezia, anche se insider americani insinuano che l'operazione facesse parte di una serie più lunga. Sia come sia, lo swap fu pagato a caro prezzo, e i suoi strascichi entrarono nel duro scontro sulla vera entità del deficit pubblico quando, nel 2001, il centrodestra vinse le elezioni. Tra manovre straordinarie, eurotassa e swap - senza contare il livello-capestro al quale fu fissato la moneta unica - gli italiani pagarono l'euro a caro prezzo. Certo, fu giusto entrarvi; più arduo pro Prodi cantare vittoria. E in fondo ancora più difficile sarà per gli avversari del governatore nella corsa alla Bce attribuirgli colpe che in realtà sono di altri. Marlowe