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Sulle Borse soffia il vento degli Usa

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Con una certa faciloneria, gli “obamiani nostrani” (ed il coretto che li accompagna sulla stampa ed in TV) hanno dato un'interpretazione semplicistica alla tormenta scatenatasi sulle Borse negli ultimi giorni. I mercati – hanno detto – puniscono i Paesi del Mediterraneo con un alto debito e deficit pubblico, come Grecia, Spagna e Portogallo. Alcuni commentatori intravedono l'inizio della fine dell'esperienza dell'unione monetaria. Altri profetizzano che la prossima bastonata colpirà anche l'Italia. E, da bravi “obamiani nostrani”, si augurano che ciò avvenga prima delle elezioni regionali ed incida sul voto. Dal coro a cappella ha preso le distanze unicamente Giancarlo Galli su Avvenire che ha correttamente criticato la montagna di ipocrisie scritte, e lette, in questi giorni. Come sempre, quando si intende plasmare la verità con una montagna d'ipocrisie, la lettura dei dati e dei fatti è in parte corretta. Né il baldanzoso Zapatero in Spagna né l'altezzoso Papandreu in Grecia – ambedue alla guida di litigiose coalizioni di centro sinistra – sembrano in grado di venire a capo delle difficoltà strutturali delle economie dei Paesi da loro governati - difficoltà aggravate dalla crisi internazionale nonostante sperassero di celare taroccando i conti. Né l'uno né l'altro sono stati all'altezza di predisporre un programma di risanamento analogo a quello in corso di realizzazione in Irlanda.   L'incapacità dei Governi di Madrid ed Atene di definire una strategia ha senza dubbio innescato la sfiducia degli operatori colpendo dapprima il Portogallo (dove però Governo e Parlamento stanno per giungere ad un'intesa su una finanziaria suppletiva per tenere i conti sotto controllo) e , poi, il resto dell'area dell'euro. È, però, errato pensare che la caduta dei listini sia un problema europeo ed in particolare dell'Europa mediterranea. Il tonfo è stato analogo alle Borse di Tokio, Shangai e Hong Kong che, per ragioni di fuso orario, chiudono le contrattazioni quando i mercati europei cominciano ad operare. In effetti, la tempesta finanziaria, in parte attesa poiché l'ascesa delle quotazioni rispondeva più all'abbondanza di liquidità che alle prospettive dell'economie reali, è stata innescata il primo febbraio quando la Casa Bianca ha delineato un programma di politica economica che, se approvato dal Congresso, porterà il disavanzo federale del 2010 al 12% del pil Usa (dopo che nel 2009 ha toccato il 9,9%): in una situazione in cui, secondo i conteggi di Steve Keen (economista vicino alla sinistra), lo stock totale di debito americano (individui, famiglie, imprese, pubbliche amministrazioni) sfiora il 350% del pil (nel 1929, ha toccato il 150% del pil). A fronte di questo Himalaya, la strategia di Obama è chiara: un'ondata d'inflazione da esportare all'estero, come fece 40 anni fa Lindon B. Johnson. I mercati – diceva Einaudi – hanno la memoria di un elefante: sanno che ciò vuol dire un rialzo dei tassi. Che penalizzerà chi non riesce a tenere la barra dritta.  

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