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L'errore di finanziare gli sperperi

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In occasione dell'Angelus domenicale, papa Benedetto XVI ha espresso preoccupazione per la situazione di tanti lavoratori. Il pontefice ha salutato con affetto i dipendenti della Fiat di Termini Imerese e dell'Alcoa di Portovesme (venuti a Roma per richiamare l'attenzione sul loro dramma) e ha invitato imprenditori, operai e sindacati ad agire con senso di responsabilità. Immediatamente è partita la raffica delle interpretazioni. Il segretario generale della Uil Luigi Angeletti, ad esempio, ha espresso apprezzamento per le parole pronunciate in Piazza San Pietro, aggiungendo che «se si vuole salvare il Paese, bisogna salvaguardare l'occupazione». In due parole, si è lasciato intendere che il papa si opporrebbe alla chiusura degli impianti, ma non è affatto detto che questo fosse il senso di tali parole e ancora meno che quella sia la scelta più giusta. Quando un'attività non produce utili, ma accumula perdite, in termini economici è semplicemente anti-sociale: non riscuote il consenso dei consumatori perché non ha saputo o potuto porsi al servizio della gente. Se all'apparire dei transistor avessimo tenuto in vita le aziende che producevano valvole, avremmo salvato qualche posto e aiutato alcune famiglie, certo, ma a danno di tutti. Per giunta, quando si usano i soldi pubblici per salvare strutture decotte quello che avviene è semplice: si tolgono risorse alle imprese valide e si trasferiscono a quelle che non lo sono. Si finanzia la sopravvivenza di mille posti di lavoro, ma sottraendo denaro ad attività che potrebbero produrne ben di più. Alla fine il saldo è negativo e questo significa aver fatto, letteralmente, "macelleria sociale". Se allora Termini è oggi una realtà improduttiva, non c'è nulla di caritatevole nel buttare soldi in un pozzo senza fondo. Semmai c'è da domandarsi - alla luce delle difficoltà che riguardano il Mezzogiorno - se non sia finalmente il caso di operare scelte strategiche, perché aver continuato a finanziare la Fiat e gli altri grandi gruppi (pubblici o privati) ha prodotto unicamente disastri. Si sono costruite, in sostanza, vere e proprie cattedrali nel deserto: e oggi ci rimane solo la sabbia. Se Sergio Marchionne non vuole più investire in Sicilia è perché conosce il mercato dell'auto e ha presenti i limiti dell'impianto di Termini. Ostacolare la delocalizzazione sarebbe assurdo. Ma dopo tutti gli aiuti che ha ricevuto certo non può permettersi di sbarrare la strada a eventuali competitori asiatici, nell'ipotesi che compaiano sulla scena e vogliano prendere il suo posto. Il vero punto, allora, è inaugurare un processo che permetta la creazione di posti di lavoro "veri". Il Mezzogiorno deve insomma darsi un quadro di regole e incentivi tali da attirare imprese e capitali, poiché oggi come oggi investire in Sicilia non è conveniente se le tasse, le regole e il costo del lavoro sono gli stessi che ci sono in Veneto. Altra cosa sarebbe accettare l'abolizione di ogni forma di sussidio alle imprese in cambio in cambio della totale abolizione dei prelievi sui redditi di impresa. Per i conti dello Stato sarebbe lo stesso, ma stavolta le risorse resterebbero a quanti producono ricchezza: senza contare la forza attrattiva che avrebbe un Sud affrancato da ogni tassa sui redditi imprenditoriali. Perfino una struttura come quella di Termini, che gli analisti giudicano inadeguato, potrebbe riuscire attraente a una multinazionale interessata a entrare nel mercato europeo e per questo obbligata a produrre nel Vecchio Continente. La Fiat ha ragione a comportarsi da azienda multinazionale, ma la stessa logica deve adottare chi fino a ieri (sbagliando) l'ha finanziata e protetta, impedendo - come nel caso della cessione dell'Alfa - ogni presenza automobilistica non italiana nella Penisola. Avere a cuore le famiglie che perdono ogni sostentamento è doveroso. In questo senso, la società deve mobilitarsi a sostegno di chi è in difficoltà, magari riscoprendo quella capacità di essere davvero "solidali" (in modo serio ed efficiente) che avevano le vecchie società di mutuo soccorso e che certo non hanno i sindacati del nostro tempo. La Chiesa è maestra nella capacità di mettersi al servizio degli altri: anche in questa crisi darà il meglio di sé. Non ci sarebbe però nulla di evangelico nella pretesa di aumentare la spesa pubblica e il controllo statale della produzione, distorcendo ancor più un'economia già soffocata dalle burocrazie pubbliche e dal dirigismo. Per fortuna, un numero crescente di cattolici comprende sempre meglio che una vera carità si esercita quando non ci si abbandona al sentimentalismo senza curarsi delle conseguenze: magari aiutando un gruppo di mille persone ben visibili e organizzate (i dipendenti delle grandi imprese, in particolare) a scapito di innumerevoli disoccupati del tutto invisibili, ma impossibilitati a trovare un lavoro se non si lascia alle spalle l'assistenzialismo.

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