Il governo assicura che l'anno appena iniziato sarà quello della riforma, ma avverte, specie per bocca di Giulio Tremonti, che il bilancio pubblico non consente di immaginare così vicina la seconda cosa.

Èvero, ma è anche una partita politica ed ideale. Attraverso la lente del fisco, insomma, ciascuno lascia vedere il tipo d'Italia futura che ha in mente. La riforma è necessaria, e lo sottolinea lo stesso ministro dell'economia, perché il nostro sistema fiscale è stato disegnato (da Bruno Visentini) in una situazione assai diversa. Ma, al di là di questo, è un sistema cui sono stati inferti mille colpi e cui sono state messe un milione di toppe, con il risultato di essere divenuto estremamente complesso e scarsamente efficiente. Ammodernare e semplificare, quindi, non sono attività voluttuarie. Il fatto è che disegnarne uno nuovo non è questione (solo) tecnica, ma altamente politica, perché significa spostare il peso dell'onere pubblico dal lavoro dipendente alle rendite, dalla produzione ai consumi. Sono parole dietro alle quali s'incolonnano interessi potenti e resistenze rilevanti. Per rendere appetibile la riforma sarebbe bello accompagnarla con una minore pressione fiscale. Questa, del resto, era l'idea originaria del centro destra, fin qui mancata o, se si preferisce, tradita. Dal 1994 ad oggi la percentuale di reddito prelevata dalle tasche dei cittadini, già elevatissima, è cresciuta di almeno tre punti. E pensare che si voleva diminuirla! Il sistema s'è attestato in un equilibrio non virtuoso, con tasse alte e alta evasione. Non a caso, infatti, i nostri salari lordi risultano fra i più bassi d'Europa, ma i nostri lavoratori non salariati fra i più numerosi. "Nero" e "sommerso", insomma, sono divenute cifre dell'identità collettiva. Purtroppo, sono anche sensori di una sovranità statale progressivamente erosa. Abbassare le tasse, si dice, non è oggi possibile, a causa del debito pubblico e della crisi. Gli oneri del debito ci sono, e sono alti, ma non raggiungono certo la metà del reddito prodotto, il peso maggiore viene dalla spesa pubblica corrente. È prevalsa la linea, che Tremonti difende con forza, di non spendere in deficit (ed è un bene) e di salvaguardare la spesa sociale. Quest'ultima lenisce i morsi della crisi, con un pil che è crollato più della media europea, ma conserva anche sacche d'inefficienza e sprechi. Fa da collante della conservazione. Costosa, come si vede. Quindi, riformare il fisco è opportuno, ma anche abbassare le tasse, perché ciò pone il non eludibile tema della ristrutturazione (nel senso di diminuzione) della spesa pubblica. Meno soldi intermediati dallo Stato, più ricchezza nelle tasche dei cittadini, significano anche più libertà e responsabilità individuali. www.davidegiacalone.it