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"Il nucleare italiano, occasione di crescita"

Energia nucleare

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{{IMG_SX}}«Rilanciare l'opzione nucleare non è costruire e far funzionare una centrale. Significa ricostruire un sistema complesso, fatto di competenze industriali, pubbliche, di controlli, di norme. Occorre un contesto politico, amministrativo, regolatorio e finanziario che possa favorire un investimento così importante. Questo fa la differenza fra un normale investimento nel settore energetico e quello nel nucleare». Fa caldo nell'ufficio di Massimo Romano, amministratore di Sogin. Ci sono le foto delle vecchie centrali nucleari italiane e un modellino di Areva, la barca challanger dell'ultima America's cup sponsorizzata dall'azienda nucleare francese. Lui, il manager, si toglie la giacca e resta in camicia bianca a righe azzurre e cravatta blu. E si lascia andare. E secondo lei ci si sta muovendo nella direzione giusta? «Credo di sì. Si sta mettendo mano alle regole, per aggiornare la nostra legislazione ai più evoluti standard internazionali. Si stanno realizzando accordi come quello con la Francia che sono senz'altro utili per sostenere il rilancio del nucleare italiano».  E ora? Se la sente di stilare un'agenda? «Dopo le norme, in primo luogo bisogna ricostruire le competenze all'interno della pubblica amministrazione».  In che senso, scusi? «Da quando, venti anni fa, l'Italia scelse di uscire dal nucleare, le competenze si sono progressivamente impoverite. L'autorità di sicurezza nazionale all'epoca contava circa trecento esperti, oggi il dipartimento nucleare dell'Ispra circa cento, di cui gli esperti nucleari sono la metà e di questi molti sono prossimi alla pensione. Il governo sta lavorando alla creazione di una nuova agenzia, una scelta in linea con quanto si fa nel resto d'Europa». Come sta procedendo lo smantellamento? «Negli ultimi due anni abbiamo affrontato le criticità strutturali, adeguato l'organizzazione agli obiettivi: ciò ha consentito di imprimere una forte accelerazione, migliorare le condizioni di sicurezza, ridurre i costi di funzionamento. Nel 2008, abbiamo realizzato attività pari a tre volte quelle realizzate mediamente fra il 2000 e il 2006, portato la popolazione aziendale a 680 unità – a fine 2006 erano 760 – senza rinunciare a ricostruire le nostre competenze distintive, ridotto i costi esterni del 15%». Nel frattempo però è cambiato il clima nel Paese, o no? «Sì, ciò è sicuramente vero, occorre consolidare questo trend con un'opera strutturata di comunicazione. Fino a due anni fa c'era un atteggiamento fortemente ostile nei nostri confronti, oggi non mi pare che sia più così».  Il nucleare fa ancora paura? «Fa paura ciò che non si conosce. Se si racconta quello che facciamo in maniera trasparente e puntuale, spiegando ragioni, tempi e modalità, tutto diventa più semplice». Anche nel Lazio è stato così? «Nel Lazio, stiamo smantellando la centrale di Latina. Essa non consente, allo stato delle conoscenze attuali, di restituire l'area totalmente green field. Ma non disperiamo che il know-how evolva. L'attività di smantellamento e di gestione delle scorie sta registrando una forte accelerazione e finirà nel 2018, con cinque anni di anticipo rispetto al precedente piano». Torniamo allo scenario nazionale. Si può cominciare con il nuovo nucleare se non è finito il decomissioning? «Sì, ma occorre che le attività di smantellamento dei vecchi impianti e la gestione dei rifiuti procedano in maniera credibile e che il Paese si doti delle necessarie infrastrutture». Che tempi ci sono per decidere il deposito nazionale? «Penso che entro il 2009 si dovrà scegliere il sito. E' una questione di credibilità nazionale, nel 2017 cominceranno a tornare in Italia le scorie del combustibile riprocessato all'estero». Da dove ripartire poi? «Sicuramente dai ministeri competenti. Il numero di persone che si occupa di nucleare è molto basso rispetto alle esigenze attuali, per non parlare di quelle future». Una volta definito questo nuovo network di competenze, quale sarà il passo successivo? «Dobbiamo creare un contesto che renda confortevole un investimento complesso ed economicamente rilevante». Che cosa vuol dire? «Non penso all'ipotesi che lo Stato sostenga e assista il rilancio del nucleare. Ma immagino piuttosto un sistema di regole che renda giustamente profittevole questo investimento». Dove vuole arrivare? «Con il prezzo del Brent di oggi, il nuovo nucleare rischi di non essere competitivo. Ma la decisione di investire nel nucleare non può avvenire su basi congiunturali».  Non è meglio aspettare la quarta generazione di nucleare, certamente più sicura? «Ha senso aspettare la quarta generazione quando molti Paesi stanno realizzando centrali di terza? E poi: aspettare significa attendere un numero importante di anni». Potrebbe non essere conveniente? «Guardi, quando si parla di nucleare bisogna fare un ragionamento più ampio. Il nucleare renderà un beneficio vero se costituirà un'occasione di sviluppo per il Paese, delle sue competenze industriali, tecnologiche, di ricerca. Se fornirà un'opportunità ai nostri talenti. Se dovessimo pensare di appaltare il nucleare a qualcuno allora forse è meglio rinunciarvi e chiedere ai grandi operatori italiani di partecipare a investimenti all'estero, moltiplicando le linee di importazione. Insomma, se dev'essere, che sia una scelta di sistema». Sta pensando all'accordo con la Francia? «Va bene comprare la tecnologia francese. Ma poi, attrezziamoci per governarla e per presidiare larga parte della filiera. Facciamone un'occasione per far ripartire il Paese».

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