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«Ora maggiore trasparenza per rassicurare chi investe»

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Mala speculazione è una bolla: prima o poi scoppia. In passato la praticavano solo i signori che giocavano in Borsa, ben consci del rischio. Poi però ha coinvolto le banche a livello mondiale. Qui sta la colpa: in una speculazione globalizzata, un castello di carte costruito senza che chi doveva intervenire stabilisse regole precise. La bolla è scoppiata e tutto il mondo ne paga le conseguenze». Un modello di finanza troppo "creativa" alla base della crisi per Ubaldo Livolsi, già amministratore delegato di Fininvest, Mediaset e Cinecittà Holding, oggi Presidente della «Livolsi&Partners», merchant bank e società di advisor a sostegno degli imprenditori, e del Fondo di Private Equity «Convergenza». Contro quella finanza Livolsi richiama a un'idea di business proficuo proprio perché di buon senso, memore di sani principi: all'indomani dei mille miliardi stanziati a Londra per uscire dalla crisi, della lista nera dei paradisi fiscali, della stretta a retribuzioni di manager e banchieri, con l'accordo unanime sul «lato umano» della crisi. Nuove regole - si direbbe "etiche" - quelle fissate al G20. Urge un'etica del business? «Il problema va affrontato in modo laico. In finanza gli obiettivi di guadagno sono necessari, ma vanno inquadrati in una logica di sviluppo di sistema. E comunque il vero scandalo, davvero eticamente deplorevole, è l'insolvenza dello Stato verso tante imprese. Se soffriamo per mancanza di liquidità, è anche colpa dei mancati pagamenti della Pubblica Amministrazione. Uno sbaglio morale, prima che economico. Se hai un debito verso lo Stato non puoi far più nulla: ti pignorano beni, ti ipotecano casa. Lui però può permettersi di non pagare. Lo Stato deve far funzionare le leggi: ma come, se lui per primo non le rispetta? Se lo Stato si rende insolvente, perché un altro non dovrebbe fare lo stesso?». Tanti Stati oggi hanno condannato i "Paesi offshore". Un buon inizio nel rispetto della legge o un palliativo per ora poco risolutivo? «È vero che i paradisi fiscali non devono esserci più, ma prima di tutto occorre risolvere il problema che quei paradisi li ha fatti fiorire: la diversità tra i vari sistemi fiscali. Sono le politiche fiscali che, anzitutto, andrebbero armonizzate». E l'impegno dello Stato coi Tremonti Bond, sostegno alle banche ma soprattutto a famiglie e imprese? «Se sulle banche si inizia un controllo politico è un danno. I prefetti, preposti alla verifica dell'erogazione del credito, sono il punto discutibile, il limite di un'operazione che, d'altro canto, è ben comprensibile. I Tremonti Bond rappresentano un mezzo importante di capitalizzazione delle banche. Ma la banca deve continuare a fare la banca. È giusto che non smetta di concedere finanziamenti, di alimentare il canale del credito, ma non può farlo su presupposti di ordine esclusivamente sociale. Anche per le aziende: i soldi vanno dati alle imprese giuste, quelle che i soldi li producono. Non quelle che li bruciano». Qualche banca sarebbe stato meglio lasciarla al suo destino? «Il caso Lehman insegna. Far fallire anche un solo istituto può innescare una reazione a catena pericolosissima. Trasparenza e chiarezza sono i principi che devono guidarci oggi. Perciò vedrei bene una bad bank che faccia pulizia e riconsegni a tutti la fiducia di poter distinguere aziende sane da quelle ancora in crisi. L'operazione trasparenza di una bad bank mette tutti in condizione di dire: «Di questa azienda posso fidarmi, da questa invece mi tengo lontano. Così gli investitori si sentirebbero sicuri a tornare sul mercato». Serietà, onestà intellettuale, chiarezza: è qui la via d'uscita dalla recessione? «Certo, e ne usciremo prima di quanto si pensi. Ma vanno riannodate le fila dei rapporti. In troppi casi la fiducia tra imprese e banche si è spezzata, complice un'estremizzata logica di centralizzazione per cui non c'è più il direttore che guarda negli occhi l'imprenditore e in breve decide se dargli o meno il finanziamento. È come in un bar, ieri frequentatissimo perché pieno di belle ragazze e oggi vuoto, dopo la scoperta che qualcuna di loro ha l'Aids. Per far tornare i clienti non servirà dimezzare il costo delle consumazioni, ma far sapere che solo una o due ragazze erano malate, mentre tutte le altre sono in salute. Solo un monitoraggio esatto delle istituzioni finanziarie sane farà tornare gli investimenti. Se no di iniezioni di liquidità se ne possono fare a fiumi, ma saranno solo una "droga" per tenere a galla aziende che, in una normale competizione, sarebbero state espulse dal mercato. E ci ritroveremo con l'inflazione a mille». Come sarà il mondo dopo la crisi? «Molto diverso. C'è da ripensare tutto il sistema. Ne uscirà più forte chi imposterà meglio le regole nel sistema produttivo nazionale. L'Italia ha sofferto meno proprio per la sua arretratezza strutturale, il suo provincialismo, qui provvidenziale. Ma ora gli imprenditori dovranno combattere la sottocapitalizzazione delle aziende, investendo i soldi nelle imprese e non portandoseli in Svizzera, lasciando alle banche il compito di farsi finanziare il rischio. Le grandi opere infrastrutturali poi, col turismo, colmeranno il gap tra Nord e Sud, rendendo il Mezzogiorno risorsa per il Paese».

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