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Giuseppe Failla L'a.d. di Telecom, Franco Bernabè, sta ...

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A ciò si devono aggiungere le lamentele di alcuni soci, come la famiglia Fossati che possiede poco meno del 5% del capitale e che ha espressamente chiesto un piano d'impresa in grado di fare uscire il gruppo dalle secche, e il mal di pancia di soci storici come i Benetton che non escludono il disimpegno nel medio termine. La complessità della partita nasce dal debito di Telecom Italia. Alla fine del 1° trimestre il solo indebitamento finanziario netto ammontava a 35,4 miliardi di euro, una cifra rilevante in assoluto e che assume dimensioni allarmanti se raffrontata alla capitalizzazione di borsa, che oggi si aggira sui 15 miliardi di euro. Da un punto di vista industriale l'eventualità di potere ripagare il debito attraverso gli utili è meno agevole che in passato. Secondo una recente ricerca della Cgia di Mestre dal 2000 il costo delle tariffe telefoniche è diminuito dell'11,4%. All'aumento del traffico, inoltre, non è seguito un proporzionale aumento dei ricavi anche per lo scarso appeal riscosso dai servizi a maggiore valore aggiunto come quelli televisivi. In questa situazione per aumentare la profittabilità della società servirebbero maggiori investimenti, resi difficili dal debito, o aumentare la produttività del personale, scesa a 94.300 euro di ricavi per dipendente nel 1° trimestre rispetto ai 96.200 dei primi tre mesi del 2007. Un effetto considerevole sui costi, e quindi sulla produttività, Bernabè lo potrebbe ottenere dando una robusta sforbiciata all'organico. Il personale, al 31 marzo scorso, contava su 83.221 addetti, secondo quanto si apprende dal sito internet della società. Ipotesi praticabile solo sulla carta vista la levata di scudi dei sindacati all'annuncio di 5.000 esuberi. Un'altra via per uscire dall'angolo potrebbe essere quella di cedere degli asset. Esclusa la vendita di Tim Brasil, la gallina dalle uova d'oro del gruppo, non rimane molto. Potrebbero essere dismessa Telecom Italia Media, e secondo più di un osservatore Carlo de Benedetti dopo l'operazione di scissione delle attività media da Cir sarebbe pronto a comprarla, ma considerato il suo elevato indebitamentto i benefici sarebbero minimi. Rimane la rete. Di cessione Bernabè non vuole sentire parlare. Anche qualora cambiasse idea rimarrebbe il problema della valutazione e soprattutto dei possibili compratori. Il governo vorrebbe che rimanesse italiana. Questo esclude la possibilità di una vendita congiunta agli altri operatori telefonici che operano in Italia visto che Vodafone è in mani inglesi, Fastweb è controllata dagli svizzeri di Swisscom, H3G dai cinesi di Hutchison Wampoa mentre Wind è dell'egiziano Naguib Sawiris. Rimarrebbe il ricorso alle fondazioni bancarie, al Fondo F2I o alla Cassa Depositi e prestiti. ma il governo conta su di loro per il rilancio delle infrastrutture e non gradisce che siano costrette a spendere parte delle loro preziose munizioni in questa partita. Sullo sfondo, vi sono anche i movimenti degli azionisti di Telecom, raccolti nella holding Telco. La spagnola Telefonica, che è il maggior azionista singolo di Telecom, nonostante abbia accusato una minusvalenza sulle azioni della società di oltre 2 miliardi a causa del crollo delle quotazioni, continua a ritenersi soddisfatta dell'investimento. I più maliziosi pensano che la gioia per il crollo del titolo sia da collegare al desiderio, finora sempre smentito, di rilevare la società. Il governo Berlusconi, così come quello Prodi prima, al primo ritorno delle indiscrezioni su un possibile acquisto da parte degli spagnoli, ha messo in chiaro la società deve rimanere italiana. Lo scenario contingente di Telecom e la situazione dei mercati rendono particolarmente complessa la messa in sicurezza della società rispetto a possibili mire esterne. A oggi la via più praticabile sarebbe quella, accarezzata già in passato, di una fusione con Mediaset. Una parte dell'opposizione la vivrebbe come un Armageddon anche se la diluizione della quota detenuta da Fininvest in Mediaset nell'ambito della fusione con Telecom risolverebbe il conflitto di interessi. La famiglia Berlusconi infatti si troverebbe ad essere un'azionista rilevante, ma non di controllo, di una public company perfettamente contendibile. Non è un mistero che i vertici del Biscione abbiano da anni il dossier sul tavolo e abbiano sempre soprasseduto dal condurre ogni possibile approfondimento per motivi di opportunità politica. Resta da capire se oggi, alla luce dello scenario complesso sia per le tlc sia per la raccolta pubblicitaria televisiva, sia una fusione ancora in grado di creare valore per le due aziende e se i due figli maggiori del Cav, Marina e Pier Silvio, siano disposti a perdere la primazia sull'azienda di famiglia per tuffarsi nell'avventura telefonica.

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