Polverini: «Cambiare la previdenza è il male minore»
Il segretario dell'Ugl: investire la liquidazione costituisce l'unico modo per garantirsi una pensione dignitosa
Sono l'unico modo per garantire ai lavoratori una pensione dignitosa». All'impostazione ideologica sul dibattito inerente alla riforma del Tfr, Renata Polverini, segretario generale Ugl, antepone anteporre il realismo della sindacalista pragmatica. Nessuna chiusura, quindi, sull'operato del governo, anche se, per quanto attiene al trattamento di fine rapporto dei dipendenti della Pubblica amministrazione, ammonisce: «I tempi saranno più lunghi rispetto a quanto dichiarato dal ministro. Varare la riforma entro gennaio sarebbe un miracolo». Dottoressa Polverini, dopo dieci anni di dibattito finalmente sembra esserci stata un'accelerata decisiva sulla riforma del Tfr degli statali. «Stiamo lavorando in questo senso. Questa riforma è uno dei nostri cavalli di battaglia. Anche se le incognite sono molte: nel pubblico impiego sinora è partito solo il fondo previdenziale per la scuola, ottenendo adesioni davvero minime rispetto a un bacino d'utenza di oltre 800 mila lavoratori. Sarebbe un miracolo se si riuscisse a varare la riforma entro gennaio come ha dichiarato il ministro per la Funzione Pubblica Nicolais. I tempi credo saranno più lunghi». Nell'avviare la riforma, quali sono le difficoltà che state maggiormente incontrando? «Tre essenzialmente. Prima: lo Stato, in questo caso, non è solo legislatore, ma anche datore di lavoro. Seconda: il Tfr degli statali è costituito in maniera diversa rispetto a quello dei privati. Terza difficoltà: abbiamo un doppio interlocutore, in quanto non dobbiamo trattare col ministro del Lavoro, ma con la Funzione Pubblica e con l'Aran, l'Agenzia per la rappresentanza negoziale della Pubblica Amministrazione. I passaggi sono più lunghi». Come prenderanno, i lavoratori, l'idea di dover investire in un fondo previdenziale il proprio Tfr? «Dobbiamo educarli a farlo, per il loro bene». Può spiegare meglio? «Tutto inizia con la riforma Dini, con la quale si passa, per il calcolo della pensione, dal sistema retributivo a quello contributivo. In questa maniera, le pensioni dei dipendenti pubblici sono state drasticamente tagliate. Oggi, uno statale va in pensione col 40% dell'ultima retribuzione, in media 500 euro. Troppo poco per sopravvivere, si rischia di creare nella società nuove larghissime sacche di povertà. L'unico futuro che i lavoratori possono avere è quello di investire nel proprio Tfr, devolvendolo ai fondi. Bisogna educarli a questo, chiarendo che potranno comunque accedere al trattamento di fine rapporto, ottenendo un'anticipazione fino al 70% per trattamenti sanitari o l'acquisto della prima casa per sé o per i figli. Ma, in questo caso, decurtando il Tfr otterranno una pensione più bassa». Però, alla fin fine, sono sempre i lavoratori a pagare le scelte scellarate del passato. Se molti istituti di previdenza pubblici sono economicamente alla canna del gas un motivo c'è: aver dovuto pagare, oltre alle pensioni, anche l'assistenza, cioè casse integrazioni e quant'altro. Non trova? «Verissimo. È stata una follia accorpare previdenza e assistenza. Ma i conti dell'Inps tengono, se si considerano solo i trattamenti previdenziali. Comunque, oggi non ci sono le condizioni per separare pensioni e assistenza o per riorganizzare tutto il comparto. I fondi pensione e la riforma del Tfr sono il male minore. Purché i lavoratori non cadano nel tranello di destinare il Tfr al fondo Inps, del tutto diseducativo dal punto di vista della previdenza complementare». Perché tante polemiche sulla riforma del Tfr del ministro Maroni durante il governo Berlusconi? Alla fine fine, l'Unione è giunta alle medesime conclusioni con la Cdl. «Esatto, per questo noi non facciamo un discorso politico né ideologico. Il Welfare dovrebbe funzionare in un modo oggi inimmaginabile. Quindi destra e sinistra pervengono alle stesse conclusioni. Con una differenza: la riforma Maroni consentiva a banche e assicurazioni di agire su un piano individuale, saltando ogni intermediario. Per questo ci siamo opposti».