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Popolari nel mirino delle banche estere

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I grandi operatori finanziari in pressing per entrare in un sistema che vale 250 miliardi di euro

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E di quelli nazionali ansiosi di rafforzare la loro posizione. Sono bocconi troppo appetitosi per chi ha intenzione di partecipare al risiko bancario ormai avviato. Secondo gli ultimi dati, a ottobre, il sistema delle banche strutturate in forma cooperativa ha raccolto 254 miliardi di euro e ne ha impiegati più di 242 miliardi. Numeri che ne fanno per dimensione complessiva il quinto polo bancario e che sollecita gli appetiti degli operatori internazionali determinati a crescere nel mercato italiano. Basta pensare alla voglia di rivalsa dello spagnolo Santander, passato da possibile conquistatore del San Paolo di Torino a emarginato di lusso nella fusione con banca Intesa. E ancora agli olandesi di Abn Amro non sazi di conquiste dopo aver integrato nelle loro file la Antonveneta. Oltre alle banche di affari internazionali in prima linea nell'accompagnare le fusioni. C'è solo un problema e non di poco conto che frena le loro ambizioni. Il sistema di voto che governa le assemblee dei soci è quello capitario. Che consiste in una semplice regola: ogni socio ha diritto a un voto indipendentemente dalla quota azionaria posseduta. Una vincolo troppo forte per chi è abituato a ragionare nelle società per azioni, quelle in cui a una determinata quota di capitale corrisponde una proporzionale rappresentanza nel consiglio di amministrazione. Ed è proprio questo meccanismo a essere messo sotto pressione. A sollecitare la modifica della regola era stato alla fine di ottobre lo stesso Governatore Draghi nel corso della Giornata mondiale del risparmio il 31 ottobre scorso. Un invito, quello dell'inquilino di Palazzo Koch, che aveva messo in fibrillazione anche il mondo politico: più disegni di legge di riforma giacciono nei cassetti delle commissioni parlamentari incaricate delle materie finanziare e l'input di Draghi aveva fatto pensare a una loro possibile accelerazione. Nulla in realtà è accaduto. Banca d'Italia ha liquidato l'accaduto come una forzatura delle dichiarazioni di Draghi. Eppure il numero uno di via Nazionale è stato per anni proprio in quegli ambienti della finanza internazionale (Draghi è stato vicepresidente della Goldman Sachs) che vedono nelle banche costituite in forma cooperativa un ostacolo ai processi di fusione e di espansione delle banche più grandi italiane e soprattutto a quelle estere ansiose di conquistare spazi nella Penisola. Insomma la voglia di rimuovere quell'ingombrante ostacolo ci sarebbe tutta. Ma i grandi finanzieri non hanno messo nel conto che il venire meno del meccanismo del voto capitario costituirebbe la negazione di uno dei principali cardini dell'azienda cooperativa. Un modello economico tutelato dalle leggi italiane ed europee, e garantito in tutti gli stati occidentali. Modificarne le basi in Italia rischierebbe di snaturare un sistema che ha consentito, solo a titolo di esempio, in Francia la crescita di un colosso bancario come il Credit Agricole e la Rabobank olandese. La partita resta aperta. Anche se è difficile immaginare modifiche al sistema del voto capitario. L'ultimo appello in tal senso è arrivato nei giorni scorsi dall'ad della Bpu, Giampiero Auletta Armenise, che ha condiviso la sollecitazione di Draghi sulla necessità di una riforma del sistema. Ma solo nel senso di innalzare il limite del possesso di azioni per ogni investitore in modo da consentire alle banche un maggior grado di apertura al mercato. Escluso, invece, l voto capitario: «eliminarlo forzosamente significherebbe cancellare le Popolari».

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