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L'italianità rientra dalla finestra

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Il presunto valore dell'italianità del nostro sistema creditizio, svillaneggiato l'anno scorso quando a lucidarlo era lo «stregone d'Alvito» Antonio Fazio, rientra dalla finestra dopo essere uscito dalla porta, assieme al governatore che ne aveva fatto il suo prediletto instrumentum regni. Intendiamoci. Nulla è più diverso dal pressapochismo arruffone con cui Gnutti e Fiorani pensavano di dare scacco ad Abn, che la grazia e precisione assolute con cui il management di San Paolo e Intesa ha gestito, anche sul piano della promozione pubblica, un passaggio epocale del riordinamento del mondo del credito. Se Fazio poi dava l'impressione di voler imprimere la spintarella finale a un nuovo «campioncino nazionale» per presidiare meglio il paesaggio bancario, Draghi ha avallato un'operazione tanto importante solo con il riserbo ed il silenzio. Come è giusto faccia chi è non giocatore ma arbitro. Tuttavia, stupisce che il diapason del consenso faccia segnare di nuovo l'antica nota del nazionalismo economico. Si apprezza non tanto la velocità, l'eleganza, i meriti strettamente finanziari di questo matrimonio. Quanto il fatto che esso funzioni come un arrocco, mettendo fuori gioco gli spagnoli del Santander e i francesi di Agricole. Come se stessimo assistendo non a banali movimenti finanziari, ma a una guerra di trincea, dove se l'Italia vince la Spagna deve perdere per forza. L'ha bene evidenziato, in un magistrale articolo sul Sole 24 Ore, Franco Debenedetti. Il valore dell'italianità era però discutibile l'anno scorso, e lo resta quest'anno. Non ha senso, infatti, giudicare una banca dalla bandiera che batte. Non è detto che un istituto italiano faccia meglio per i consumatori italiani, nel senso: che abbia prezzi più bassi, nè è detto che l'italianità sia una garanzia di porte a porte per investimenti importanti sul territorio. Chi fa bene impresa e ha idee dovrebbe far valere queste ultime, non una appartenenza geografica. Non è un caso se in Italia non siano molte le banche a premiare le idee innovative, ma invece l'allocazione del credito tende a privilegiare un approccio statico alla vita economica (contano, fuori di ogni metafora, i metri quadri che uno può vantare in garanzia). Possiamo dire, a priori, che l'arrivo in Italia di più stranieri peggiorerebbe la situazione? O non è piuttosto una ipotesi ragionevole, che lo sbarco di un numero maggiore di competitori renda più vivace la concorrenza per accaparrarsi i quattrini dei risparmiatori? E non abbiamo tutti, giustamente, gioito quando è stato uno straordinario manager italiano, Alessandro Profumo, a costruire a partire da Milano un grande gruppo italo-tedesco che però guarda oltre i confini nazionali, e proprio per questo è libero dalla perniciosa influenza della politica (al di là di quelle che sono le sue assolutamente legittime convinzioni personali, in tale campo)? Se Sant'Intesa è un'operazione intelligente e profittevole, ce lo dirà il mercato. Le prime impressioni sono buone, il giudizio è sospeso perché dev'esserlo, perché non si esulta a scatola chiusa. Solo, non gioiamo per il passaporto del nuovo gigante. È l'ultima delle ragioni, per celebrare l'intelligenza strategica di Salza, Bazoli, Passera. L'economia è un gioco in cui non si finisce mai di imparare. Se gli stranieri possono insegnarci qualcosa, tanto meglio.

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