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Il made in Italy soffre ma pensa al rilancio

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Le esportazioni 2005 sono scese del 2,5%. E la quota mondiale si è ridotta al 3,5%

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Per questo servono politiche commerciali più coraggiose e maggiore qualità. È questo l'invito arrivato ieri dall'Istituto per il commercio estero (Ice) che - nel rapporto 2005-2006 presentato ieri Roma - ha puntato il dito contro «l'inefficienza dinamica» dell'economia italiana. Anche se i segni di un risveglio ci sono. Sulla base dei primi dati 2006, si intravede, infatti, una leggera ripresa. Non così dai dati del 2005 che indicano a fronte di una crescita mondiale degli scambi che, seppur in frenata, risulta superiore alla media degli ultimi anni (grazie all'Asia, ormai saldamente centro propulsore della crescita) e pari al +6,1%, il volume delle esportazioni italiane è calato del 2,5%, e la loro quota di mercato ha subìto un'ulteriore flessione (3,5% dal precedente 3,9%) a causa sia «dell'incapacità del modello italiano di modificarsi nella stessa direzione della domanda mondiale», sia della «scarsa capacità di attrarre investimenti dall'estero». In crisi soprattutto le produzioni manifatturiere tradizionali, come il tessile (anche se - spiega il rapporto - l'aumento dell'import è stato del 2,9%, «assai inferiore» a quanto potevano far pensare i primi effetti dello smantellamento dell'Accordo Multifibre), e il turismo. Ma, più in generale, le quote di mercato delle esportazioni italiane hanno subìto i «cedimenti più vistosi nei prodotti finiti tipici del Made in Italy», mentre si sono consolidate nei beni intermedi e in quelli di investimento legati a tali produzioni, indicando così un modello che passa attraverso lo «spostamento all'estero di alcune fasi dei processi produttivi». «Nei settori di punta del Made in Italy, infatti - rileva l'Ice - le vendite delle affiliate estere di imprese italiane sono aumentate più rapidamente delle esportazioni, avvalorando l'ipotesi che in qualche misura le imprese italiane abbiano sostituito le une alle altre». Gli stessi distretti industriali, aspetto tra i più originali del modello italiano, hanno ridimensionato le attività nei beni di consumo finali e tendono a concentrarsi sempre più nei beni d'investimento, tramite lo spostamento all'estero di produzioni non più sostenibili in Italia. Pur con i suoi dati negativi, il 2005 - ricorda il rapporto - ha registrato un aumento degli esportatori di circa il 5%, tasso massimo da un decennio a questa parte: «la base imprenditoriale delle esportazioni tende quindi ad ampliarsi», e si consolida dal punto di vista della dimensione aziendale, con un calo delle imprese con meno di 50 addetti. Ed è aumentato sia il credito agevolato all'export (anche per l'inclusione della cantieristica navale) che il valore delle garanzie assicurative concesse dalla Sace. «Segni di trasformazione positivi», spiega l'Ice, che vanno incoraggiati con «politiche incisive di aumento della competitività dei mercati, volte a selezionale le imprese migliori», e con «un intervento pubblico più efficace per affrontare i problemi sociali creati dalla concorrenza internazionale». Alla presentazione del rapporto è intervenuto il presidente dell'Ice, Umberto Vattani che ha ricordato l'importanza della Cina per le aziende italiane. Siamo fra i primi 20 paesi che esportano in Cina: «le imprese italiane hanno una straordinaria capacità, possono giocare molto bene. Si tratterà di aiutare sempre di più le aziende ad alto potenziale di export», ha concluso.

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