Per prendere Roma, ora la posta dei milanesi sale a 14 miliardi
La cui prima mossa è toccata all'ad di Capitalia Matteo Arpe. Che ieri sfruttando un semplice articolo, il numero 120 del Testo unico finanziario, ha messo in difficoltà i milanesi di Banca Intesa. Questi negli ultimi giorni hanno sempre negato le loro intenzioni bellicose verso l'istituto romano. Ma il mercato non ci ha creduto, gli analisti e gli operatori finanziari hanno sentito puzza d bruciato nei rastrellamenti in Borsa che hanno fatto crescere a due cifre il titolo Capitalia. Ci deve essere sotto la mano di chi è interessato e chi, hanno pensato, se non la stessa Banca Intesa. E lo stesso pensiero deve essere passato nella mente dei romani. Anche se Passera e i suoi hanno dichiarato che in ogni caso si muoveranno operando "in termini amichevoli" meglio cautelarsi e almeno non arrivare completamente impreparati a un ingresso di Bazoli e compagnia sulla plancia di comando di Via Minghetti. Insomma, fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio. Così ora dopo l'acquisto del 2,02% di Intesa, da parte della banca dell'interdetto presidente Cesare Geronzi, la palla torna a Milano. Che ormai dovrà giocare allo scoperto la sua partita. Sì perché i casi sono due. O è vero che Intesa non ha speso neanche un euro negli ultimi tempi per comprare azioni Capitalia oppure dovrà dichiarare l'entità del'eventuale pacchetto posseduto. Che però non avrà alcun valore, in termini di peso, nelle decisioni interne di Via Minghetti. La stoccata di Arpe, infatti, (non dettata da personalismi ma solo da un mero calcolo di chiarezza) fatta attraverso l'articolo del Tuf applicato rende nulli i diritti di voto della partecipazione. E i milanesi in questa ipotesi avrebbero speso molto per trovarsi in mano solo un cerino acceso. C'è solo una via d'uscita per Passera in questo caso. Un via pratica ma costosa, molto costosa. Ed è questa: per ritornare in possesso dei diritti di voto, Intesa, sarebbe costretta a lanciare un'opa sul 60% di Capitalia. Uno scherzo che ai valori attuali dell'istituto capitolino (circa 17 miliardi di euro) e considerando un premio di maggioranza, riconosciuto a chi volesse aderire, pari al 30% significhirebbe un esborso di oltre 13 miliardi di euro. Ben al di sotto delle altre cifre che circolano in questi giorni su operazioni di fusione transfrontaliere come quella di Enel su Suez, ma in ogni caso un ticket sostanzioso. Tutto è ancora aperto. E nei prossimi giorni i mercati aspettano la prossima mossa. Per ora il punto va assegnato ad Arpe. Con soli 600 milioni di euro rischia di farne uscire in un solo colpo ai milanesi più di venti volte tanto.