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VIAGGIO IN UNA FABBRICA A SUZHOU

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Pagati poco e fedeli all'azienda

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Quale operaia italiana o europea sarebbe disposta a stare ore ed ore con le mani ammollo in una bacinella d'acqua calda per sciogliere i fili che compongono il baco da seta? Nelle numerose seterie cinesi si lavora così e non potrebbe essere diversamente dal momento che l'intervento manuale in questa prima fase di produzione non può essere sostituito da nessuna macchina. A Suzhou, una delle città cinesi nota per la produzione della seta, i capannoni delle industrie tessili si estendono a perdita d'occhio. All'interno non c'è aria condizionata anche se qui d'estate la temperatura è alta e l'umidità insopportabile. Una accanto all'altra giovani donne dalle lunghe dita sottili maneggiano con abilità i bachi e arrotolano i fili della seta in rocchetti che girano senza sosta, unico momento meccanico. Lungo le pareti, grandi balle di filato grezzo accatastate, sono pronte per partire per tutto il mondo. Tra le destinazioni c'è anche il distretto di Como famoso per la lavorazione della seta. Qui le fabbriche per la produzione di filati sono state chiuse da oltre trent'anni e Como dipende totalmente dalla Cina. «La produzione richiedeva un'alta intensità di manodopera che avrebbe fatto alzare il prezzo di oltre sei volte» spiegano all'Unione industriali di Como. Ma nei capannoni sparsi lungo quella che Marco Polo chiamò la via della seta, nel suo viaggio in Cina, le donne continuano ad arrotolare nell'acqua calda i bachi, con le dita gonfie e rosse. E se qualcuno chiede loro come fanno a sopportare quei ritmi e quelle condizioni di lavoro rispondono sciorinando i dati della produzione aziendale come un azionista parlerebbe dei dividendi e fanno il confronto con altre imprese lì vicino. Forse sono proprio questi fattori a preoccupare le imprese dell'Occidente.

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