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La guerra New York-Airbnb e il paradosso della sharing economy

L'economia della condivisione dove tutti forniscono servizi è già finita nelle mani di pochi che pretendono privilegi locali da estendere a livello globale

Davide Di Santo
Davide Di Santo

Professionista dal 2010, bassista dal 1993, padre di gemelli dal 2017. Su Tecnocrazia scrivo di digitale e tecnologia

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Lo scontro tra Airbnb e la città di New York, così come le recenti battaglie di Uber, fanno emergere il grande paradosso della sharing economy: il consumo condiviso che rende ognuno fruitore e fornitore di servizi è sempre più nelle mani di pochi. Partiamo dalla cronaca. Il governatore dello stato di New York, Andrew Cuomo, sta per approvare una legge che di fatto rende illegale buona parte degli annunci messi online su Airbnb nella Grande Mela per affittare la propria stanza ai turisti. Si parla di multe da mille a 7.500 dollari per chiunque usi il sito per cedere il proprio appartamento per meno di 30 giorni in base alle leggi che regolano il turismo a New York. Norme che finora, in assenza di un'azione mirata del legislatore, non sono state applicate per il "consumo condiviso", ovvero quei fenomeni economici basati sulla cessione per periodi limitati di beni e servizi che il proprietario mette a disposizione.

Già, la cosiddetta sharing economy, fenomeno previsto una decina di anni fa dalla "teoria della coda lunga" di Chris Anderson: grazie alle potenzialità della rete da un albergo con cento stanze stiamo andando verso un sistema in cui cento albergatori mettono a disposizione una singola stanza. Ma c'è davvero condivisione di benessere quando una sola azienda come Airbnb fattura trenta miliardi di dollari mentre in molte città - Roma è una di queste - gli utenti "host" non sanno se devono richiedere ai propri "guest" la tassa di soggiorno? Come fa la nuova idea di baratto potenziata dalle piattaforme online a trasformarsi in ricchezza locale quando a guadagnarci davvero sono una singola azienda di San Francisco e chi usa Airbnb per fare l'albergatore senza pagare le tasse e rispettare norme e regolamenti? 

Incontrai Chip Conley tre anni fa. E' stato il primo a investire sull'allora start-up Airbnb quando era un manager che si occupava di boutique hotel, ma già immaginava il mondo come un potenziale gigantesco albergo, le cucine delle famiglie come ristoranti tipici e le piazze dei quartieri come veri social network. Mi disse che sognava una comunità globale che esplora il mondo attraverso la condivisione, un nomadismo low cost che crea benessere per viaggiatori e locali. Usò l'esempio del Palio di Siena: una manifestazione così forte e suggestiva dell'essere comunità può essere soltanto vissuta a stretto contatto con i cittadini, nelle loro case, nelle loro strade. Il discorso finì sulle tasse, sulla concorrenza sleale, sulle polemiche per Uber. Le argomentazioni di Conley furono efficaci: "Quello che guadagni con Airbnb lo porti dal commercialista, lui ti dirà quanto pagare. La tassa di soggiorno? Vogliamo dialogare con tutte le amministrazioni. Questo è un servizio di condivisione, lo utilizzano anche i bed and breakfast professionali ma serve soprattutto a chi ha un reddito basso, a chi è stato licenziato e ha un periodo di difficoltà economica, a chi è solo ma ha tanto spazio a disposizione. Noi ci guadagnamo? Certo, ma il sistema funziona solo se guadagnano i nostri utenti".

Tutto bello. Eppure secondo alcune inchieste indipendenti un quarto o addirittura un terzo del giro d'affari di Airbnb si baserebbe su affitti prettamente commerciali, ovvero utenti che mettono a disposizione un numero consistente di unità abitative. E secondo il Financial Times i nuovi colossi Airbnb e Uber  sono tutt'altro che "disrupters", anzi, sono dannosi per le economie locali. Una cosa è un'idea rivoluzionaria, un'altra le rivolte per pretendere privilegi locali da estendere a livello globale.

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