Giorgio Montanini: un cafone tra i radical chic
Corrosivo e senza filtri, il comico marchigiano è il protagonista de "I predatori", nuovo film di Castellitto jr
Per Giorgio Montanini la porta della tv si è chiusa più volte, e quasi sempre con strascichi polemici. Come quando Daria Bignardi, all'epoca direttrice di Rai3, cancellò il suo «Nemico pubblico». Troppo aggressivo e sopra le righe per un piccolo schermo sempre a caccia di volti rassicuranti e risate innocue. Ma, quasi inaspettatamente, per il comico marchigiano si è aperto il portone più prestigioso, quello del cinema. Pietro Castellitto infatti lo ha scelto per «I predatori», film prodotto da Domenico Procacci che vedremo in sala il prossimo anno. Le riprese sono state ultimate a settembre, giusto il tempo per Montanini di tornare a teatro con il suo one man show «Come Britney Spears» che farà tappa al Brancaccio di Roma il primo dicembre. Montanini, che ruolo interpreta ne «I predatori»? «In pratica sono il protagonista. Quasi me ne vergogno perché nel cast ci sono attori di razza come Massimo Popolizio, Vinicio Marchioni e Anita Caprioli. Interpreto il capo di una famiglia popolare, verace e molto fascista di Ostia Lido che si trova a scontrarsi con quella borghese e radical chic di Popolizio». Pietro Castellitto, all'esordio come regista, è figlio di Sergio e della scrittrice Margaret Mazzantini. Si è chiesto perché ha scelto lei? «Me lo chiedo, e ho continuato a chiedermelo fino all'ultimo giorno di riprese! Quando l'ho incontrato Sergio mi ha coperto di complimenti. Pietro mi ha detto che ha scritto il personaggio pensando a me. Devo ammettere che visti da vicino questi radical chic non sono così male... E i soldi che hanno se li guadagnano: sul set vige un regime militare, sveglia alle cinque e non ci si ferma un attimo». Nel cast ci sono altri comici come Dario Cassini. «È un segnale positivo. Di solito in Italia i comici sono trattati come quelli che fanno le pernacchie con le ascelle mentre nei paesi anglosassoni il passaggio dal palco al set è quasi naturale, basti pensare a Woody Allen, Robin Williams o Jim Carrey. Perché il comico è anche attore, ma non è detto che l'attore sappia fare anche il comico. Forse il vento sta cambiando. Quando ho firmato il contratto per "I predatori" ho detto: il cafone è entrato nel golf club». Il suo rapporto con la tv è a dir poco controverso. Da Nemico pubblico a Nemo, da Ballarò a Dritto e rovescio, è sempre finita male... «Mi hanno cacciato tutti. Mancano solo La7 e Rai1». Lo vive come una medaglia o come una fonte di frustrazione? «Né l'una né l'altra. È un attimo passare da Sabina Guzzanti, che vive la censura come un riconoscimento, a Daniele Luttazzi che soffre per l'assenza. Il comico non deve pretendere niente. In televisione c'è un editore che fa le sue scelte e basta. Non sopporto quelli che dicono: aiutiamo quell'artista che non lavora, poverino. Macché, per me deve morire di fame, come quelli che vanno in tv a dire che non campano con la pensione sociale. Chi fa questo mestiere ha scelto di vivere in un modo avulso dal contesto, non può pretendere un welfare speciale. Se non mi chiamassero più farei i miei spettacoli per strada in piedi su una cassetta di frutta». Come è cambiato il ruolo del comico con il web? «Faccio un esempio politico. Salvini ha capito perfettamente come sfruttare la comunicazione sui social. Quelli di sinistra ancora attaccano i manifesti come nell'800. È lo stesso per chi fa il comico. Puoi fare a meno dei social solo se sei Brad Pitt, altrimenti finisci male. L'anno scorso ho portato 1.500 persone al Brancaccio solo con Facebook, senza fare un manifesto». Nei suoi monologhi attacca le ipocrisie e i paradossi della gente comune, quasi mai i politici. Perché? «In Italia esistono le elezioni e io non ce la faccio ad attaccare chi viene scelto dal popolo. Dare la colpa di tutto alla politica e a chi governa è un alibi. I comici che pensano di fare satira sono in realtà dei reazionari. Fanno il gioco del potere perché il vero potere sta nell'uomo medio che sceglie da chi essere governato. Crozza con la parrucca e le imitazioni è il simbolo di questa roba qua». Ora si butta nel cinema? «Sono in tournée poi si vedrà. Come comico sono il numero uno in Italia, lo dico senza falsa modestia. Ma come attore non ho la pretesa di dire: voglio fare cinema. Mi affido al giudizio degli altri e aspetto che mi chiamino». Di cosa parla il suo ultimo spettacolo? «"Come Britney Spears" rappresenta un cambio di stile perché è quasi assolutorio nei confronti dell'essere umano. Viviamo in un'epoca in cui è il potere stesso a gestire la protesta, e tutti dietro. L'esempio perfetto di questo dissenso controllato è Greta Thunberg. Non può una ragazzina con la sindrome di Asperger diventare la leader mondiale della lotta all'inquinamento. Gli stanno affidando il pianeta Terra, mica un condominio. Un altro campione della pseudo-protesta buonista è Banksy. Il vero street artist impone l'arte in modo crudo e violento, le opere che fa lui le potrebbe fare anche la Bignardi...». E che c'entra Britney Spears? «C'entra perché il filo conduttore di tutto è la fallibilità dell'essere umano. Esistono gli eroi perché esiste il fallimento. Britney Spears è caduta, ha avuto la forza di alzarsi ed è tornata sulle scene meglio di prima. Ha onorato la vita, ed è questo quello che conta. Poi musicalmente mi fa schifo, ma questo è un altro discorso».