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James Senese lancia la sfida: "La musica è una guerra"

Carlo Antini

Cinquant’anni di carriera e tanta voglia di esplorare e stupire. James Senese è uno dei maggiori musicisti e sassofonisti italiani, fondatore e cuore pulsante del progetto Napoli Centrale, formazione da decenni punto di riferimento indiscusso del jazz e della fusion italiana. E non solo. James Senese festeggia questo importante giro di boa con una serie di concerti sold out in tutta Europa e con la pubblicazione di un doppio cd live intitolato «Aspettanno ’o Tiempo». James Senese, qual è il bilancio di questi cinquant’anni di carriera? «È molto positivo perché dopo cinquant’anni sono ancora qua e detto legge. La mia musica non ha frontiere e finalmente il mio messaggio sta arrivando al pubblico». Qual è il segreto del suo successo? «Il segreto sono io. Non mi sono mai fatto condizionare da niente e nessuno. La mia musica è vera e piena di sentimenti. È una sorta di guerra tra male e bene». Cosa sono il male e il bene per James Senese? «Dalla politica ai grandi criminali è fin troppo chiaro cosa sia il bene e cosa il male. Il bene è ciò che si riesce a dare agli altri e quello che si vorrebbe per se stessi. Il male è tutto ciò che ci ferisce e purtroppo è dominante. Il diavolo esiste, è stato cacciato dal paradiso e continua a vendicarsi». Nel titolo del suo doppio album live c’è un chiaro riferimento al tempo. Cosa vuol dire? «Tutti aspettiamo un tempo. Il tempo della morte o il tempo della vita. E siamo tutti ancora in tempo per farlo». Nella tracklist del doppio cd c’è anche «LL’America», canzone scritta per lei da Edoardo Bennato. Com’è nata la vostra collaborazione? «Edoardo mi ha chiamato al telefono e mi ha detto: "James, tengo nu piezz’ pe tté". Bennato è un musicista vero. Non me lo sono lasciato ripetere due volte e ho accettato al volo». Quali sono per lei i musicisti veri? «Sono quelli che hanno scelto di fare musica al cento per cento. Senza compromessi col sistema. Questo è un mestiere difficile che va fatto seriamente e con tutto il cuore. Molti artisti che ho conosciuto si sono persi per strada. Magari preferendo il posto fisso. Poi si sono arresi. Io invece ci ho creduto fino in fondo e ho sempre avuto fame di fare musica. Il musicista vero è quello che soffre nella vita pur di realizzare la sua arte e solo così riesce a concretizzare il suo grande amore. Negli anni ’30 e ’40 molti musicisti hanno conosciuto la povertà. Io stesso ho attraversato momenti molto bui». Qual è stato il periodo più difficile e il più bello della sua carriera? «Il più difficile quando sono stato per mesi senza lavorare. Me la sono vista brutta e sono stato anche costretto a vendere qualcosa che avevo da parte. Il momento più bello sicuramente a 18 anni quando, per la prima volta, ho incontrato il successo con gli Showman. Ero poco più che un ragazzino ed è stato il giorno più emozionante della mia vita. È lì che ho capito che ce la potevo fare. All’improvviso ero diventato un re. Poi sono arrivati Napoli Centrale, Pino Daniele e tutto il resto». Cosa significa per lei l’esperienza di Napoli Centrale? «È stata innanzitutto una grande battaglia. Ho dovuto lottare per rimettere insieme la band perché il sistema mi ha ostacolato e la considerava un’esperienza finita. Ma non è così. Infatti siamo ancora in piedi. Tra il pubblico vedo persone di 80 anni che restano ad ascoltarci fino alla fine. Mi vengono a baciare le mani e per loro sono un mito. Siamo un punto di riferimento ed è una grande soddisfazione». Non si sarà mica montato la testa? «Direi proprio di no. Sono rimasto il solito Gaetano Senese». Cosa ricorda del suo primo incontro con Pino Daniele? «Pino mi ha chiamato e mi ha detto che i Napoli Centrale lo facevano impazzire. A quell’epoca aveva già pubblicato “Terra mia” ma mi disse che voleva suonare con me. A me, però, in quel momento serviva un bassista. Lui rispose che non aveva soldi per comprare un basso e così glielo regalai io. Da quel momento è stato con noi due anni». Cos’aveva di così speciale? «Il sentimento. Con Pino eravamo in perfetta sintonia su tutto. Mi resi subito conto che era un grande autore e aveva qualcosa da dire. Da lui uscivano parole e poesie che mi affascinavano». Si ricorda un aneddoto del vostro rapporto umano e artistico? «Avevo dieci anni più di Pino ed ero molto più addestrato. Lui era ingenuo. Io lo mettevo in guardia e gli davo consigli come se fossi un fratello maggiore. Siamo rimasti legati fino alla fine anche se ognuno aveva la sua situazione musicale». Quanto le manca un personaggio come lui? «Altroché se mi manca. Purtroppo, però, ci dobbiamo abituare alle assenze. È come se fosse scomparsa una persona di famiglia. La sua morte è stato un momento bruttissimo. Per fortuna l’arte dei grandi musicisti sopravvive nel tempo». Ha parlato tante volte di musica vera e di sentimenti. Cosa pensa della musica di oggi e dei talent show? «Non è pensabile che un ragazzo partecipi ai talent solo perché ha una voce bellina e poi venga dimenticato dopo poco. La musica dev’essere una gavetta fatta di privazioni e sofferenze. È una guerra. Penso ai grandi del passato. A John Coltrane e Miles Davis che hanno fatto la fame e dormito sui marciapiedi. Solo così si può dimostrare di avere qualcosa da dire e conquistare una profonda credibilità artistica. Oggi, invece, tutti vogliono fare i cantanti e dopo sei mesi non se li ricorda più nessuno».