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Micalizzi a mano armata: "La mia musica calibro '70"

Il compositore si racconta dal fischio di Trinità ai "poliziotteschi"

Davide Di Santo
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La musica a mano armata di Franco Micalizzi è stata la colonna sonora dell'Italia degli anni '70. Ma il compositore romano, che sta per festeggiare i 50 anni di attività, non si ferma un attimo: ha appena pubblicato l'album di inediti e rivisitazioni «Calibro 70's» e una canzone con la strana coppia Maurizio Ferrini-Orietta Berti. Non solo, visto che il maestro della pulp music inanella concerti con la sua big band (il 17 luglio sarà al Parco Schuster di Roma) e collaborazioni con schiere di rapper stregati soprattutto dai funky nervosi composti per i polizieschi di Umberto Lenzi & Co.. «Il pittore si sveglia la mattina e comincia a dipingere. Il compositore fa lo stesso, non può smettere di scrivere. Ed è meglio che fare il ragioniere al catasto, anche se oggi molti musicisti sembra che facciano gli impiegati, svolgono il compitino a seconda delle mode del momento», racconta a Il Tempo Micalizzi che recentemente ha scoperto una parentela inaspettata. «Sì, con Garbiele Micalizzi (il reporter di guerra italiano ferito a febbraio in Siria dalle schegge di una granata, ndr). Ha scoperto che discendiamo da due fratelli di Palermo. Un giorno hanno litigato e sono partiti uno per Roma e l'altro per Milano senza più parlarsi. Gabriele è veramente in gamba, non a caso è un Micalizzi... Mi sta coinvolgendo in un grande progetto insieme a due stelle del rap sul filo conduttore della pulp music, il mio marchio di fabbrica. Oggi tutti cercano quelle atmosfere». Come la sua prima colonna sonora importante. Il fischio di Trinità ha conquistato anche Quentin Tarantino... «Sì, e pensare che era un film che partiva con aspettative bassissime e due attori, Bud Spencer e Terence Hill, poco più che esordienti. Il compito del compositore è trasmettere il "sapore" del film, e per "Lo chiamavano Trinità" era quello dell'umorismo immerso in un contesto che rimandava alla violenza e alla tensione dei film di Sergio Leone. Un equilibrio bellissimo. Per questo ho utilizzato il fischio di Alessandro Alessandroni come fece Morricone ma con una chiave scanzonata e ironica. Tarantino ha colto questa intenzione e ha messo il tema di Trinità sull'ultima scena di "Django", quando la violenza dopo un crescendo epico sfuma in un sorriso. Lo ringrazio per aver pensato a me anche per il finale di "Grindhouse" ("Italia a mano armata, ndr")». La musica del cinema di genere risentiva del clima di violenza dell'Italia di quegli anni? «In un certo senso. È musica aggressiva, dinamica e dall'incedere spietato, ma anche lì sotto sotto c'è ironia. Come in "Napoli violenta" (1976, ndr), dove il funky da poliziesco si mescola con la tarantella. In quel film c'è una scena che è una sintesi del cinema di quegli anni. Il regista Umberto Lenzi sapeva che in quei giorni in centro ci sarebbe stato un funerale in pompa magna, con il carro trainato dai cavalli e moltissime di persone. Così istruì gli attori e li fece passare in mezzo al corteo funebre mentre facevano un inseguimento a piedi riprendendo tutto da una finestra. Nessuno si accorse di nulla perché durò un attimo, ma il regista portò a casa una scena magistrale senza spendere una lira. Dopo il neorealismo solo il poliziesco ha saputo raccontare l'Italia più autentica. C'è molta gente presa dalla strada, e la strada è la vera protagonista di molti film del genere». Eppure per denigrarli è stato coniato il termine "poliziotteschi". Come mai? «I critici per decenni hanno considerato di serie B il cinema di genere ma solo per pregiudizio. Questo naturalmente ha penalizzato anche me come musicista. In tutta la mia carriera non ho mai ricevuto un premio importante: dal Nastro d'argento ai David di Donatello neanche una menzione. Dimostrano di non capire il successo. Delle due l'una: o sono degli snob o sono degli stronzi. Ora se mi chiamassero rifiuterei sdegnato, anche perché premi alla carriera non ne voglio: si muore il giorno dopo. Non nascondo, però, una certa soddisfazione quando i rapper americani vengano a cercare i miei temi per campionarli nei loro dischi. Quasi che il mio funky sia più autentico di quello originale». All'epoca questa scarsa considerazione le pesava? «Certo. Trinità e "L'ultima neve di primavera" sono stati successi planetari, ma anche la sigla di Lupin III, per dire. I critici di allora però erano ideologizzati e utilizzavano i film a fini politici. E a me, che sono di sinistra, questo faceva rodere ancora di più». La colonna sonora dell'Italia di oggi? «Non mi ispira molto, chiederei al regista un paio di settimane di tempo... Il fatto è che non c'è un colore forte, il senso di vuoto che viviamo mi ispira poco. Forse mi butterei su una musica elettronica dalle atmosfere misteriose. Dal dopoguerra agli anni '90 siamo stati un Paese in continua crescita, ora ci sono solo silenzio e rap. I trapper? Fanno canzoni che devono durare un mese, cosa ci vuole trovare?». Nel disco Celebrity ha descritto in musica personaggi famosi. Che tema sceglierebbe per la sindaca Virginia Raggi? «Per come è messa la città farei una marcia funebre, ma senza augurarle niente di male, eh... (ride, ndr). Amo Roma visceralmente, anche perché il mio amore per la musica da film è nato sulle poltrone del Teatro Italia di via Bari. Ma la situazione oggi è terribile». Altre celebrità? «Per Salvini farei una fanfara roboante e un po' farsesca. Per la capitana della Sea Watch (la tedesca Carola Rackete, ndr) invece userei un tema brillante e vagamente civettuolo. Ha agito per un motivo alto ma anche un po' per farsi notare. Ma in questo non c'è niente di male, sia ben chiaro». Ha avuto ruoli di primo piano nella Siae e guida un sindacato di settore. Qual è lo stato di salute della musica oggi? «Pessimo. I nemici numero uno dei musicisti oggi sono le grandi piattaforme. Lo sa che Spotify e iTunes danno all'autore un centesimo per ogni ascolto? In sintesi, uno che fa un milione di clic prende mille euro di diritti. E questi signori della Silicon Valley con le opere dei musicisti, dei fotografi, dei registi e dei giornalisti sono diventati miliardari. Per anni abbiamo calato le braghe, ora ci dobbiamo ribellare».

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