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Luc Merenda sbirro d'assalto: "I miei anni d'oro e piombo"

L'attore francese mito dei "poliziotteschi" si racconta

Davide Di Santo
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Il sorriso beffardo, il fisico atletico, lo sguardo irridente di quello che aspetta solo un pretesto per menare le mani. Luc Merenda è uno dei volti simbolo del cinema italiano degli anni Settanta, quell'industria ambiziosa e artigianale che sfornava più di trecento film l'anno. Un commissario luci e ombre al servizio del “poliziottesco” («Milano trema: la polizia vuole giustizia» e «La polizia accusa: il Servizio Segreto uccide» di Sergio Martino; «Il poliziotto è marcio» di Fernando Di Leo) ma anche un divo che è riuscito a non farsi fagocitare dagli stereotipi del film di genere. Oggi ha 75 anni, una moglie e una figlia, una terrazza rivolta verso il sole dell'Hérault e l'ironia inossidabile di uno che ha vissuto, parole sue, a briglie sciolte.  «Mio padre era una specie di malato sanissimo. Dopo una parentesi in Marocco aveva comprato un monastero in Provenza dove ospitava pittori, scultori e sedicenti artisti. Da vero mecenate aiutava tutti, e molti se ne approfittavano: bevevano, mangiavano senza dover produrre un profitto... Ma era tutto così divertente. Sembrava di vivere in una arca di Noè, con animali un po' particolari». Il destino l'ha portata, recentemente, a fare a sua volta il mecenate di un artista cinese. «Sì, grazie a mia moglie che lavorava nel settore e aveva frequenti rapporti con l'Asia. Ma ora ho smesso, e anche la mia attività di antiquario è in pausa. Mi sono da poco trasferito a Sète, nel sud della Francia. La vista sulla laguna è magnifica. E sono finalmente lontano dal caos di Parigi».  Per il pubblico italiano rimane uno dei cine-commissari più iconici insieme a Maurizio Merli, Tomas Milian e Franco Nero.  «Merli l'ho incrociato una volta sola. Gli dissi: "Ma non ti dà fastidio fare queste scazzottate dove esci sempre senza un capello fuori posto?". E lui: "Ma che dici, con questi occhi posso fare quello che voglio...". In realtà è diventato famoso grazie a me: rifiutai "Roma violenta" e presero lui. Una cosa simile accadde con Milian. Umberto Lenzi mi voleva per il ruolo del Monnezza, ma dissi di no. Mi ci vede a fare le mossette e le gag in romanesco?».  Nel suo libro (“La mia vita a briglie sciolte”, Bloodbuster edizioni) si diverte a raccontare miserie e cattiverie dei colleghi come Steve McQueen e Alain Delon. Perché? «Per la mancanza di rispetto, che nel cinema è la norma, potrei ammazzare. Così, per evitare la sgradevole circostanza, scrivo... McQueen? Pessimo. Rispetto solo il fatto che aveva avuto un'infanzia di merda. Picchiava la moglie. E sul set disprezzava tutti. Ne "Le 24 ore di Le Mans" non voleva essere fotografato insieme agli altri attori e ai piloti. Delon era amato solo dalle donne, gli uomini capivano che sotto sotto era uno stronzo. Non è un mistero che è stato portato avanti dalla lobby dei registi omosessuali. Bravo, per carità, ma con i colleghi... Durante la lavorazione di "Sole rosso" sfrecciava in limousine mentre noi altri aspettavamo l'autobus». Come entrò nel cinema?  «Non sono un predestinato. Ci arrivai quasi per caso. A Parigi lavoravo nella pubblicità ma nel '68 tutti i contratti saltarono per la contestazione. Ero furioso con quella manica di figli di papà, ma ero anche curioso. Così andai all'Odeon di Parigi per capire cosa stava succedendo. Li vidi lanciare sampietrini contro la polizia e capii che erano diventati in un attimo casseur professionisti, esattamente come i gilet gialli oggi. Così vendetti la mia adorata coupé e me ne andai in America con la speranza di fare un master alla Columbia. Nell'attesa facevo il cameriere e una ragazza mi convinse a lavorare come modello. "Perché è un mestiere per maschi?", pensai. Poi vidi quanti soldi mi davano... Alla fine non ottenni la green card e, tornato in Europa, mi chiamarono per "OOSS 117", una copia francese di 007». In Italia arrivò via mare... È vero? «Come Romolo e Remo con la lupa, la mia vita romana iniziò sul Tevere. Il mio patrigno era un pazzo integrale. Eravamo in Corsica e gli venne l'idea: "Andiamo in Italia, a Roma, il tuo paese!", viste le mie origini svizzere-italiane. Arrivammo alla foce del Tevere e pensò bene di risalire il fiume con una barca di dodici metri! Le gente dai ponti si sbracciava: lui pensava ci salutassero, invece ce ne dicevano di tutti i colori fino a quando ci incagliammo. Eravamo ubriachi, lasciammo lì la barca e proseguimmo in taxi. Fu amore a prima vista». Anni dopo tornò da attore. Fu proposto a Bolognini, Visconti, Pasolini... Come andò? «All'inizio non si fece nulla. Mi aveva stupito la circostanza: la mia agente mi faceva vedere solo registi omosessuali... Pasolini lo incontrai nel '69. Era amico di Pierre Kalfon, il regista di "OSS 117". Davanti a me c'erano lui e Maria Callas. Per tutto il pranzo non mi guardò in faccia né mi rivolse la parola. Perché? Non lo so. Però ho avuto l'impressione che apparissi ai suoi occhi come un uomo preistorico al massimo del suo splendore». Nella sua carriera non mancano eventi singolari. Per "Italia: ultimo atto?" di Massimo Pirri non si trovò la polizia in casa? «Era il '77, ero stanco di fare sempre il poliziotto e quel copione mi aveva incuriosito. Era una storia politica, una banda di terroristi che rapiva e uccideva il ministro dell'Interno. Quando qualche mese dopo Aldo Moro fu ammazzato mi sentii male perché nel film ero io che uccidevo il politico. Ho pensato che i terroristi si potessero essere ispirati a me, visto che in quegli anni molti ladri e rapinatori replicavano i colpi visti al cinema. So che i miei film erano tra le fonti di ispirazione del celeberrimo Rédoine Faïd (il terrore di Creil evaso dal carcere di Réau nel luglio 2018 con una spettacolare fuga in elicottero, ndr). All'epoca però si diceva che uno degli autori che avevano collaborato al film fosse impegnato nelle Brigate Rosse».  Sabato è stato il protagonista Stracult del BAFF - Festival di Busto Arsizio. Le piacciono i premi?  «Sì, e preferisco avere quelli alla carriera piuttosto che quelli alla memoria... Amo questi appuntamenti perché per un attimo ho l'impressione che non sono passati quarant'anni dai quei film. Certo, poi fai un selfie con un fan, ti vedi nello schermo del telefono e pensi: ma come fanno questi a riconoscermi?».

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