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Enzo Sciotti: "Il mio cinema dipinto tra sangue e dive sexy"

Con oltre tremila manifesti è il decano dei cine-illustratori

Davide Di Santo
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L'arte è prima di tutto mestiere. Ed Enzo Sciotti, decano della cartellonistica cinematografica, sa bene qual è il suo, di mestiere: colpire lo spettatore con la forza dell'immaginazione. Dagli anni '60 a oggi ha realizzato i manifesti di oltre tremila film, tutti dipinti. «Con il computer si può fare tutto ma non c'è calore, il futuro è un ritorno a tempera e pennello. E all'immaginazione», racconta Sciotti, classe '44, dal suo studio di Cisterna di Latina. «Prima di tutti l'hanno capito gli americani. Ora, ad esempio, sto lavorando a una riedizione in Blu-ray di "Shining". Ma anche in Italia il vento sta cambiando. Ho appena finito il bozzetto per "Metti una notte" di Cosimo Messeri con Amanda Lear e Cristiana Capotondi. Dopo decenni di strapotere della grafica digitale sarà il primo film italiano promosso con un manifesto pittorico. Una piccola contro-rivoluzione». A quali manifesti è più legato? «Fare una classifica è difficile, anzi impossibile. I lavori per Dario Argento come "Phenomena" hanno fatto il giro del mondo, è vero, ma i manifesti che ritengo migliori artisticamente sono forse "Velluto Blu" di David Lynch e "Unico indizio la luna piena" di Stephen King. Tra i generi, sono molto grato all'horror ma soprattutto alla commedia sexy: tra liceali e soldatesse mi sono potuto sbizzarrire con i nudi». Come ha iniziato? «Mo padre era stuccatore e affreschista e io sono nato con matita e pennelli in mano. Avevo quindici anni quando mia madre incontrò sull'autobus un professore di grafica che mi portò in una scuola di cartellonistica a Monteverde. Smisi dopo sei mesi: bello studiare, ma avevo bisogno di lavorare. Mio padre purtroppo era morto giovane e le spese erano tante. Così iniziai a lavorare con lo studio Battaglia, una di quelle botteghe dove si imparava l'arte e si respirava l'atmosfera dei maestri del Seicento. Dall'idea al bozzetto, dal disegno al colore: ancora oggi quando lavoro mi sento vicino a Caravaggio e Rembrandt». Le idee da dove vengono? «I produttori chiedono sempre di vedere prima il film ma io non lo faccio mai. Solo per Aurelio De Laurentiis ho fatto qualche eccezione. In realtà guardare il film frena l'immaginazione: a me bastano titolo e foto di scena. Poi aspetto l'idea giusta. Arriva sempre, magari due ore prima di presentare il bozzetto, anche perché negli anni d'oro del cinema italiano lavoravo come un pazzo. Con Cineriz, Titanus e Medusa trattavo con il capo ufficio stampa. De Laurentiis e Luciano Martino invece volevano parlare direttamente con me. Quando feci il manifesto di "Velluto Blu", nell'86, lo portai direttamente ad Aurelio. Avevo un po' esagerato, lo ammetto: si vedevano delle gambe di donna divaricate e legate a una stecca da biliardo. Accanto una biglia sporca di sangue. Un suo collaboratore gli disse: "Presidente, ma questo ce lo sequestrano!". E lui: "Non me ne frega un c..., basta che la gente va al cinema". Naturalmente, dopo una settimana ritirano tutti manifesti!». Alcuni registi come Fulci davano grande importanza ai manifesti. È vero? «Sì e Lucio era uno di questi. Una bellissima persona. Sul set dicono fosse burbero, ma con me è sempre stato gentile. Per "In viaggio con papà" incontrai Alberto Sordi, uguale a come appare nei film. Eravamo tutti al bar per caffè e cornetto, poi si alzò e se ne andò quasi a voler confermare tutte le voci sulla sua avarizia! Un altro grande era Nanni Loy: appena arrivava nelle case di produzione uscivano tutti dagli uffici per sentire le barzellette che sparava a raffica. Un personaggio incredibile era Joe D'Amato (al secolo Aristide Massaccesi, mito dei B-movie italiani, ndr). Diventammo grandi amici». Si sente ancora nel Seicento, ma ha un sito e un e-commerce su Amazon... «Vendo un sacco di disegni e manifesti, soprattutto all'estero. In realtà molti li vorrei ricomprare, magari per fare una grande mostra a Roma. Anche perché la nuova tendenza è il ritorno al passato. La grafica digitale non sorprende più, per colpire il pubblico servono matita, colori e una buona idea. Come nel Seicento».

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