PopCult
Enzo G. Castellari: "Il mio cinema da duri tra cowboy e giustizieri"
Il nome della famiglia Girolami è scolpito nella storia di Roma. Letteralmente, perché la statua del pugilatore allo Stadio dei Marmi ha le fattezze di Marino Girolami, allora campione europeo e in seguito regista di commedie tra i più prolifici e apprezzati. A raccogliere il testimone, già dagli anni ’60, del capostipite di una famiglia che ha attraversato il cinema italiano dal dopoguerra in poi è stato Enzo G. Castellari (dove G. sta per Girolami), regista di cult come Keoma, Il grande racket, Il cacciatore di squali, Vado... l'ammazzo e torno, La polizia incrimina, la legge assolve... Franco Nero, protagonista di molti suo film, ha detto: "Ho scelto di lavorare con Castellari perché me ne parlavano tutti male". Come mai, secondo lei? «Dopo qualche esperienza da aiuto sono subito passato alla regia e questo ha provocato qualche invidia. Anche perché in quegli anni i film da fare erano tanti e la competizione era altissima. Essendo figlio e nipote di registi e fratello di un attore pensavano avessi molte più chance. Ed è vero, che fortuna che ho avuto! Io ero partito per fare altro. Mi sono laureato in architettura ma il Dna alla fine ha vinto. E poi dovevo aiutare mio padre che faceva un film al mese. Mentre preparava le scene e girava, io mi dedicavo al montaggio e al mixaggio del film precendente e così via, era una catena. Dirigeva anche sei film l’anno, e io mi divertivo come un matto». Qual è stato l’incontro più importante per la sua carriera? «Ce ne sono tanti. Come quello con Alberto De Martino nel ’66 (regista e sceneggiatore: Il consigliori, L’assassino è... al telefono) al villaggetto western dei fratelli Balcazar a Barcellona. Tanti giravano lì, ti davano pure cavalli e comparse, ma faceva abbastanza schifo. Dovevo fare da aiuto in uno spaghetti western di José Luis Madrid, regista pessimo. Quando ci siamo ritrovati a Roma De Martino mi ha proposto come aiuto per un film in cui non volevano "cavallari", ovvero stuntman e maestri d’armi. Così ho iniziato a camminare da solo. Il primo da regista è stato un film che mio zio Romolo non aveva potuto girare. Il colpo di classe fu la scelta del titolo: Vado... l’ammazzo e torno, come la frase di Eli Wallach ne Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone. Fece il botto, anche perché il titolo spesso decreta il successo di un film. È la teoria del mecoglioni e ’sti cazzi, che ho imparato proprio da De Martino. Basta dire il titolo del film ad alta voce, e vedere quale delle due opzioni esce spontanea... Un altro dogma di De Martino era: lo zoppo fa ride, il cieco fa piagne, la mamma che more parla poco! Sono le piccole "leggi" del cinema di genere». Le piace il cinema italiano di oggi? «No, perché regna la noia. La grande bellezza di Sorrentino avrà pure vinto l’Oscar, ma due palle... Belle immagini, eh, ma è una copia di Fellini. Tra i registi di oggi mi piacciono i Manetti Bros e Matteo Garrone. Con Marcello Fonte, il protagonista di Dogman premiato a Venezia, ho anche girato un cortometraggio in cui interpretava un pedofilo». Manetti e Garrone, registi che spesso pescano dal cinema di genere... «Non sono gli unici. Stefano Sollima (ha diretto le serie tv Romanzo criminale e Gomorra e i film Suburra e Soldado) conosce tutti i miei film. De Cataldo, il magistrato autore di Romanzo Criminale, l’ho incontrato in tribunale e mi ha detto: «Magari l’avessi fatto tu il film...». I registi di "poliziotteschi" sono da sempre bollati come fascisti. Lei ha l’aggravante di indossare sempre la camicia nera... «Ce l’ho anche in questo momento, ma è perché sono un po’ daltonico, e allora ho tutte camice uguali per non sbagliarmi! Le racconto una cosa. Qualche anno fa sono stato in un centro sociale dove hanno proiettato Il cittadino si ribella. Al momento del dibattito ho preso la parola: «Mi hanno sempre dato del fascistone e dell’estremista di destra, ma lo sapete che mio nonno è stato ucciso da una squadraccia perché era amico di Matteotti?». Gelo. Mio padre, in seguito, i responsabili li ha ritrovati tutti. Uno si fingeva prete, un altro si era trasferito in un paesino. E gliel’ha fatta pagare, uno per uno. Ma il punto è un altro. In quel film dei criminali rovinano la vita a una persona per bene che, mentre lo stato non fa nulla, è costretto a farsi giustizia da solo. Ecco, se questo vuol dire essere fascista allora sì, sono fascista. Anche i ragazzi dei centri sociali mi hanno dato ragione». La Roma degli anni ’60 era la culla del cinema, ma non solo. «Credo di aver vissuto nel momento più bello dell’umanità. Nel senso più assoluto. A Fregene incontravo spesso Ennio Flaiano. Che genio. Con mia moglie ci intrattenevamo spesso con sua figlia, che aveva grandi problemi di salute. Lui ha saputo di questa coppia che dedicava del tempo a quella creatura così sfortunata, e ci è venuto a ringraziare. È nato un bellissimo rapporto». Anche l’incontro con sua moglie sembra l’inizio di un film. «L’ho conosciuta che eravamo ragazzini, alla moviola del montaggio. L’ho rincorsa per anni». Quentin Tarantino si è ispirato al suo Inglorious bastards per il film quasi omonimo. È un bel tributo. «Un grande onore. Quando abbiamo rivisto insieme il mio film ha recitato tutte le battute a memoria. Rideva come un pazzo, e mi ha distrutto la spalla a forza di cazzotti! Fuck you man!, ripeteva. Che risate. Lui è un cultore del nostro cinema, ha visto tutto. Anche The hateful eight, in certe atmosfere ricorda Keoma, il mio film migliore. Tra i miei preferiti c’è anche Il grande racket, con Fabio Testi. E il western shakespeariano Johnny Hamlet. Peccato per il titolo italiano, Quella sporca storia del west. Ti viene da dire: e sticazzi...».