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Tony Dallara: "Urlatori si nasce"

Tony Dallara con il maestro Cinico Angelini alle prove del Festival di Sanremo 1960

Gli anni ruggenti del cantante di Come prima e Romantica: "Che trionfi, ma quel concerto mancato con Marilyn..."

Davide Di Santo
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Ha tanti record Tony Dallara, al secolo Antonio Lardera, grande voce italiana da esportazione agli albori del Boom. La carta d'identità - classe 1936 - attesta che è il più anziano vincitore ancora in attività di un Festival di Sanremo, quello del 1960 con Romantica in coppia con Renato Rascel. Inoltre è stato il primo a essere chiamato «urlatore», definizione poi utilizzata per Mina, Celentano e tanti altri. E, sull'onda del successo strepitoso di Come prima, nel 1957, è stato tra i primi cantanti di musica leggera a portare l'Italia nel mondo. «Sono tornato in sala d'incisione per fare qualcosa di nuovo ma voglio anche dare una rispolverata ai miei vecchi successi che hanno fatto il giro del mondo, e lo hanno fatto davvero, non come tanti colleghi dicono delle loro canzoni... - racconta Dallara al telefono, con lo stesso timbro stentoreo di quando è davanti al microfono - Purtroppo però, non ho scritto io Come Prima e Romantica e quindi non ho mai preso una lira di diritti d'autore. Allora ti davano due soldi, una pacca sulle spalle e via. Non mi hanno neanche offerto una pizza... Ogni volta che sento Come prima in tv e nelle pubblicità (Coca Cola e Fiat l'hanno recentemente utilizzata per alcuni spot internazionali, ndr) penso solo che non mi arriverà un euro! Rimane la soddisfazione di aver cantato il primo grande successo italiano nel mondo, prima di Nel blu dipinto di blu. Tutto grazie ai juke box». Trecentomila copie vendute in pochi giorni. Ed era la sua prima incisione... «La fortuna è stata che ho preteso di interpretarla a modo mio, in tonalità alta, da urlatore. Mi chiamavano così, oltre a il "Tarzan della canzone". È un termine cucito addosso a me dai tempi del Santa Tecla, il locale di Milano dove cantavo i successi americani, come quelli degli amati Platters. Tutte le sere, verso le tre di notte, il direttore di sala mi diceva: "Tony ma cosa ti urli, canta piano". Serate memorabili, veniva tutta Milano, Celentano e Gaber spesso chiedevano se potevano salire sul palco per fare un pezzo». Suo padre era corista alla Scala. Era dura, in casa, per un urlatore come lei? «Ma a me piaceva la lirica. Abitavo in viale Tibaldi, a Milano, dove viveva Giuseppe Di Stefano, uno dei più grandi tenori del mondo. Un giorno disse in un'intervista che anch'io avrei potuto fare lirica. Mia madre, molisana, invece mentre faceva le faccende cantava le canzoni della tradizione napoletana. La musica ce l'avevo in casa. Ho cominciato a "urlare" all'oratorio e non ho più smesso». Nel '60 venne catapultato a Sanremo. Come andò? «Modugno aveva vinto il festival due volte di fila con Piove (Ciao ciao bambina) e Nel blu dipinto di blu, in coppia con Johnny Dorelli. Per Romantica avevano scelto Renato Rascel ma cercavano una voce "forte", così mi vennero a trovare che ero ancora sotto le armi per farmi ascoltare la versione di Rascel, dolce e sussurrata. Dissi subito di sì, ma poi durante le prove a Sanremo "minacciai" il batterista: "Durante lo stacco io parto più veloce, tu stammi dietro oppure fai una figura barbina!". Durante la trasmissione il maestro Angelini, direttore d'orchestra, si accorse del sabotaggio e si mise le mani tra i capelli ma ormai non poteva fare più niente. E fu un trionfo. Chi l'ha detto che l'amore si deve sussurrare? A volte bisogna urlare». Ma da allora le porte di Sanremo si sono chiuse. Perché? «Ci ho provato quasi tutti gli anni, anche nel 2008 con Teo Teocoli. Ma non mi hanno più preso. Non so perché, forse invidia. Sono stato il primo degli urlatori ma bruciare così tante tappe mi ha frenato. Nel '57 il sistema discografico non esisteva. Mi avrebbero ricoperto di soldi, peccato che non c'erano! C'era il Cantagiro e poco altro, e quando la discografia è diventata un'industria era già tardi, e così sono rimasto fuori dal giro». Si sente un pionere? «Sì perché quando ho iniziato io non c'era niente; nei locali dovevo insegnare io ai musicisti come suonare le terzine (l'andamento cadenzato di brani come Only you, ndr). Per dirne una, Celentano a un certo punto si era stufato di cantare, per frustrazione ma penso anche per gelosia nei miei confronti, e voleva tornare a fare l'orologiaio. Il suo maestro gli disse: dimmi che stipendio ti danno, i soldi te li do io ma continui a cantare. Aveva qualcuno che puntava su di lui. Ecco, questo a me non è successo». Qualche soddisfazione, in seguito, se l'è tolta anche come pittore astrattista. «Da ragazzino volevo fare l'Accademia di Brera, ma l'iscrizione costava diecimilia mile. E chi le aveva mai viste? Così ho fatto di tutto: fabbro, magazziniere, venditore di salami, fruttivendolo, benzinaio, lavamacchine... Poi la sera cantavo nelle sale da ballo. Quando è arrivato il successo facevo ancora questi lavoretti. Ma la passione per la pittura l'ho sempre coltivata. Nell'ambiente della musica erano tutti invidiosi, così frequentavo i pittori. Fontana, Dova, Guttuso, mi portavano tutti su un palmo di mano. Avevano capito che dipingevo con spontaneità e mi trattavano come uno di loro. Certo, poi quando si inauguravano le mostre mi chiedevano sempre di cantare...». Il Boom di Tony Dallara è tra il '60 e il '61. Tre vittorie di fila a Sanremo e due edizioni di Canzonissima. I ricordi più belli? «Tantissimi, ma soprattutto i concerti in America dove ho conosciuto i grandi cantanti di allora. Tutti di origini italiane, come Perry Como. Quando me lo presentarono mi disse: "Ah, ma tu si' famoso!", perché Come prima e Romantica hanno fatto conoscere nel mondo la musica leggera italiana. Ho conosciuto Dean Martin (all'anagrafe Dino Paul Crocetti, ndr), che mi chiamava «Paisa'». Tutti di un'umiltà e di una gentilezza incredibili, non come qui in Italia dove appena vanno in televisione si sentono chi sa chi». Ce l'ha un po' con i suoi colleghi... «Gli altri cantanti mi hanno sempre guardato come se fossi un alieno. Tutti invidiosi per come avevo vinto a Sanremo, per aver cantato alla Carnegie Hall prima di tutti, per i concerti che feci nel '61 insieme a Jane Russell, la diva americana de "Il mio corpo ti scalderà", la più sexy del momento. Che serate, la sala non smetteva di gridare "Nuda, nuda, nuda!". Il pubblico impazziva, e anch'io per la verità. Ma il duetto più incredibile per un ragazzo di 25 anni, come ero io allora, purtroppo è saltato per colpa del destino». Racconti. «Sempre negli Stati Uniti, nel '62. In una sala affollata di impresari e addetti ai lavori scorgo donna minuta, nascosta in un foulard. La rinosco, è Marilyn, proprio lei, vista in tanti film! In quegli anni ci si eccitava nel vedere una caviglia, e io avevo davanti a me la Monroe in carne e ossa! E avrei dovuto cantare con lei! Ha salutato tutti e io non mi sono lavato la mano per una settimana. Quello che è successo dopo è noto. Si è uccisa, o l'hanno fatta fuori, vai a capire. In seguito l'ho dipinta tante volte in ricordo di quel concerto mancato».

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