Il segreto di Mario Biondi: «Io benedetto dal Signore»
Il cantante siciliano parla del suo album «Brasil» e delle nuove sfide
La prima volta in gara a Sanremo, la prima canzone in francese, il primo disco in brasiliano e i primi concerti nei palasport. Per Mario Biondi il 2018 è l'anno delle prime volte. Un crooner che si rimette in gioco con la voglia di sperimentare che non ferma chi come lui ama le sfide. Mario Biondi, lei ha appena pubblicato l'album «Brasil». Perché l'ha dedicato a una cultura così lontana? «Ho sempre avuto una fascinazione per quella terra. Il capo della Sony Brasil ha contattato la Sony Italia per proporre il progetto. In Brasile ho sempre avuto un bacino d'utenza fedele che mi ama e mi segue. Nel 2009 la mia “Ecstasy” è diventata perfino la colonna sonora di una telenovela». Qual è stato il criterio di scelta per i brani da inserire nell'album? «La bellezza. Abbiamo pensato a una serie di titoli e poi abbiamo scremato il materiale. Abbiamo scelto cover che si riferissero al territorio brasiliano. Standard della tradizione pescati dal classicismo brasiliano solare e denso. Oltreoceano ho anche conosciuto una coppia che ha composto cose molto interessanti per me. E' stato un processo molto naturale e alla fine il repertorio si è sistemato da solo». Com'è andata la lavorazione in studio? «Le dico la verità, questa volta avrei preferito fare solo il cantante ma non è stato possibile. Alla fine mi sono lasciato coinvolgere anche nella produzione dei brani ed è stato molto bello. Musicisti e produttori erano tutti brasiliani e tra noi si è creata un'atmosfera di grande collaborazione». In passato aveva già duettato con la Vanoni in un brano cantato in portoghese. Questa volta non ci ha pensato? «No, lo devo ammettere. Ma certamente la Vanoni e la Mannoia sono le cantanti più brasiliane che abbiamo in Italia». Tra le cose che farà quest'anno per la prima volta ci sono anche due concerti nei palasport che la vedranno protagonista il 17 maggio al Palalottomatica di Roma e il 20 maggio al Forum di Assago. Come si sta preparando ai due eventi? «Partiamo col botto. Ho chiesto esplicitamente al mio ingegnere del suono di curare tutto nei minimi dettagli. E' tutto molto stimolante. Avrò un palco gigante su cui far salire tanti strumenti e musicisti. Mi sento addosso una buona dose di paura ma sono sicuro che quando il tour finirà mi mancherà tutto». L'abbiamo appena vista in gara sul palco di Sanremo. Che ricordo ha dell'esperienza all'Ariston? «Mi sono trovato molto bene. È stato bello condividere il palco con l'orchestra. Quando pensavo a “Rivederti” me la immaginavo proprio così come l'abbiamo arrangiata a Sanremo. Alla prova generale ero molto emozionato ma è stata un'esperienza positiva. Poi era tanto che i miei fan mi chiedevano di portare su quel palco un brano in italiano. Era arrivato il momento per farlo e ne sono stato felice. Anche se a dirla tutta un neo c'è stato...». E quale? «La giuria cosiddetta di qualità. Una volta Allevi si è avvicinato a me e mi ha detto: ma qui la qualità dove sta? Insomma la giuria dei giornalisti la capisco ma se devo giudicare un ritratto di Leonardo da Vinci non chiamo mica l'imbianchino, non crede?». Non le è sembrato un Festival un po' troppo “baglionizzato”? «Indubbiamente è stata una celebrazione del repertorio di Baglioni. Ma è giusto accendere i riflettori su canzoni di quel valore. Anzi dovremmo farlo più spesso anche con altri autori italiani come Concato, per esempio, che è spesso dimenticato. Insomma bisognerebbe puntare di più sull'Italia e sul nostro patrimonio artistico». Che intende? «In Italia tendiamo a mitizzare lo straniero e, in particolare, gli americani e non valorizziamo le cose belle che abbiamo. Siamo i principali detrattori di noi stessi, dimenticandoci che la cultura siamo noi. Tutto questo si sente anche nella musica. A me, per esempio, nelle radio non mi passano molto perché dicono che hanno i palinsesti già pieni. Poi vai a sentire di che si tratta e ti rendi conto che importiamo anche cose non di valore. Non coltiviamo il nostro cantautorato che, al contrario, a volte tira fuori personaggi molto interessanti come Mannarino. Radio e tv, però, queste cose non le passano. Ci deve essere spazio per tutti». Oggi è difficile fare musica in Italia? «È difficile come lo è in tutte le professioni. È difficile coinvolgere le persone nei progetti. Io ho le idee chiare e so quali messaggi voglio veicolare. Ma c'è anche chi ha poco tempo. Siamo di fronte a un passaggio generazionale molto importante e bisogna fare i conti con le visioni di chi detiene il potere. Oggi o fai il belcanto o entri in una nicchia come la mia. Io, ad esempio, sono già un outsider ma continuo a fare sold out nei teatri di tutto il mondo. Mi sento un benedetto dal Signore». Crede di essere un predestinato? «Lo sto cercando di capire. Sicuramente mi chiedo perché nella vita mi sono successe certe cose invece di altre». Cosa pensa dei talent show? «Servono al potere televisivo ma, allo stesso tempo, consentono a un gran numero di talenti di affacciarsi al mondo dello spettacolo. Il loro limite è che, spesso, sono una fabbrica delle illusioni e creano inflazionamento. Da lì escono una gran quantità di cantanti ma poi i dischi chi li compra?». Tornando indietro lei parteciperebbe a un talent? «Sì, lo avrei fatto. Anche se pensandoci bene non ho mai avuto la velleità del successo fine a se stesso. I giovani, invece, vivono questo delirio di voler arrivare a tutti i costi».