Dario Fo e il suo passato scomodo da repubblichino
Del passato repubblichino di Dario Fo si è detto tutto e di più. Per anni la sinistra che lui aveva "abbracciato" nel suo ruolo di artista impegnato, gli ha rinfacciato quella "macchia". E lui ha vissuto questa cosa con un un certo imbarazzo. Tra querele e parziali ammissioni. "Io repubblichino? - raccontò a Repubblica nel 1978 - Non l'ho mai negato. Sono nato nel '26. Nel '43 avevo 17 anni. Fin a quando ho potuto ho fatto il renitente. Poi è arrivato il bando di morte. O mi presentavo o fuggivo in Svizzera''. I giornali spesso tornarono sulla vicenda. E lui, per un certo periodo, provò a difendersi dalla "terribile accusa" nelle aule dei tribunali. Uno di questi processi, intentato contro la direzione del quotidiano Il Nord, si concluse con la seguente sentenza: "È certo che Fo ha vestito la divisa del paracadutista repubblichino nelle file del Battaglione Azzurro di Tradate. Lo ha riconosciuto lui stesso – e non poteva non farlo, trattandosi di circostanza confortata da numerosi riscontri probatori documentali e testimoniali – anche se ha cercato di edulcorare il suo arruolamento volontario sostenendo di avere svolto la parte dell'infiltrato pronto al doppio gioco. Deve ritenersi accertato che delle formazioni fasciste impegnate nell'operazione in Val Cannobina facessero sicuramente parte anche i paracadutisti del Battaglione Azzurro di Tradate. ( … ) Non è altrettanto certo, o meglio è discutibile, che vi sia stato impiegato Dario Fo. Ma (…) la milizia repubblichina di Fo in un battaglione che di sicuro ha effettuato qualche rastrellamento, lo rende in certo qual modo moralmente corresponsabile di tutte le attività e di ogni scelta operata da quella scuola nella quale egli, per libera elezione, aveva deciso di entrare. È legittima dunque per Dario Fo non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore”. Nel tempo, comunque, Fo non ha mai cambiato la sua versione. Cioè quella di un arruolamento "per necessità". "A differenza di Vivarelli che, sebbene per poco, ci credette - dichiarò al Corriere della Sera -, io lo feci per ragioni molto più pratiche: cercare di imboscarmi, di portare a casa la pelle (...). Io e tanti miei amici chiamati alla leva, per evitare il fronte le pensavamo tutte. E per evitare di essere deportato in Germania la scappatoia fu quella di arruolarmi nell'artiglieria contraerea di Varese. Una contraerea mancante dei pezzi fondamentali, i cannoni. Una situazione ideale per noi, che contavamo di tornarcene tranquillamente a casa. In permesso perenne. Invece era una trappola. Appena arruolati ci caricarono sui treni merci, ci fecero indossare divise tedesche e ci affidarono all'esercito del Reich, per farci addestrare sul serio. In realtà ci usarono come bassa manovalanza (...) A un certo punto capimmo che ci avrebbero trasportati in Germania a sostituire gli artiglieri tedeschi massacrati dalle bombe. E allora altra fuga. L'unico scampo era arruolarsi nella scuola dei paracadutisti di Tradate, a due passi da casa mia. (...) Finito l'addestramento, fuga finale. Tornai nelle mie valli, cercai di unirmi ai partigiani, ma non era rimasto nessuno".