Ungaretti, il poeta in trincea
Nella sua raccolta «L'Allegria», orrori, dolore e sofferenza L'amicizia fraterna con Mussolini che cambiò la sua vita
Le prime poesie di Giuseppe Ungaretti apparvero su Lacerba, il foglio futurista fiorentino fondato da Giuseppe Papini e Ardengo Soffici, nel tumultuoso 1915, l'anno dell'entrata in guerra dell'Italia. Il poeta, attivo sulla «piazza» interventista, in maggio viene arruolato e in novembre avviato sul Carso come soldato semplice del 19° Reggimento Fanteria. Scrive a Papini: «Ho fatto le mie giornate di trincea, sulla cresta d'un monte, affogato nel fango». E incomincia a buttar giù quei versi che racconteranno l'esperienza di guerra in poche note intense e spezzate, dove par di avvertire il respiro dei soldati immersi nel buio, il fuoco che irrompe devastante, il conforto di una sigaretta scambiata nel fragore della battaglia o nel silenzio di morte che cala su tutti all'improvviso. La prima poesia, scritta da Cima Quattro, è «Lindoro di deserto». Il titolo si spiega con le strofe conclusive: «Il sole spegne il pianto/ Mi copro di un tepido manto/ di lind'oro/ Da questa terrazza di desolazione/ in braccio mi sporgo/ al buon tempo». Segue la celeberrima «Veglia», destinata ad essere accolta in ogni antologia scolastica che si rispetti: «Un'intera nottata/ buttato vicino/ a un compagno/ massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio/ con la congestione/ delle sue mani/ penetrata/ nel mio silenzio/ ho scritto/ lettere piene d'amore/ Non sono mai stato/ tanto/ attaccato alla vita». Ma chi è questo combattente destinato a rivoluzionare la poesia italiana con le liriche de «Il porto sepolto», poi confluite nella raccolta «L'allegria»? È un italiano d'Africa, nato ad Alessandria d'Egitto. Al pari di un altro «interventista della cultura»: Filippo Tommaso Marinetti. Ma il fondatore del Futurismo, che è di dodici anni più anziano, proviene da una ricchissima famiglia milanese (il padre è un celebre avvocato civilista), mentre Ungaretti è toscano, lucchese e di ceppo contadino. I genitori sono emigrati ad Alessandria per la costruzione del Canale di Suez, ma il babbo è morto quando Ungaretti aveva due anni, in un incidente sul lavoro. La mamma, donna religiosa ed energica, apre allora un forno e con questo piccolo esercizio commerciale riesce a garantire al figlio ottimi studi. L'adolescente Giuseppe arde di plurali passioni: Leopardi, Baudelaire, Mallarmé, il Nietzsche distruttore e profeta, l'anarchia. Al verbo libertario l'ha convertito un altro toscano, un tipo stravagante, e cioè l'imprenditore e scrittore Enrico Pea, destinato col suo «Moscardino» a ben figurare tra i narratori più innovativi del Novecento. Ma in quegli anni noto soprattutto come un mercante di marmi apuani dai bollenti ardori sovversivi. E Ungaretti è un assiduo frequentatore della sua «Baracca rossa», nata come deposito di marmi, diventata un covo di anarchici fuoriusciti. Crescono, nel Nostro, febbre rivoluzionaria e voglia di cultura, ed ecco, negli anni '12 e '13, l'avventura parigina, con l'«immersione totale» nella Senna e nel magma creativo delle avanguardie, che è esperienza comune a tanti intellettuali del tempo. Ungaretti fa la conoscenza di «irregolari» del socialismo come Sorel e Peguy, diventa amico di Apollinaire, Braque, Picasso, Modigliani e intanto stringe contatti con gli intellettuali vociani e lacerbiani la cui «trasversalità» politica tanto lo affascina. Si tratta di un «sovversivismo» che coniuga istanze di rinnovamento sociale con appelli patriottici e identitari: una pugnace, colorita «sintesi» che sta alla base del primo fascismo. La «guerra» del rivoluzionario Ungaretti (quanto mai «miles pacificus» sul campo di battaglia: in lui, nessuna ebbrezza sanguinaria, nessun appello a barbarici istinti di distruzione, ma solo sofferenza, comprensione e solidarietà) prosegue nel 1919 con la ripresa del sogno di una «rigenerazione» italiana, affidata a un «uomo nuovo» e a un nuovo «verbo» politico. Ecco, allora, l'amicizia con Mussolini, l'adesione al fascismo, la collaborazione al «Popolo d'Italia». In un profilo autobiografico, inviato a Giovanni Ansaldo il 28 agosto 1933 rimasto inedito fino a quando fu pubblicato dalla mondadoriana «Storia Illustrata» nel marzo del 1986, Ungaretti dà testimonianza di questa scelta dicendo che per lui la devozione nei confronti del Duce «era più forte della vita stessa» al punto che aveva voluto che suo figlio si chiamasse Antonio Benito, aggiungendo dunque al nome del nonno quello del «padre» del fascismo. Del resto, era stato il Duce stesso a testimoniare la forza di quel vincolo amicale firmando nel 1923 la prefazione per la nuova edizione del «Porto sepolto». Devozione politica e amicizia erano destinate a consolidarsi nel tempo. Tanto è vero che, nel 1935, Ungaretti inneggia alla Rivoluzione e al suo Capo con una poesia inserita nell'«Antologia dei poeti fascisti». Un anno dopo gli è offerta la cattedra di Letteratura italiana all'Università di San Paolo, in Brasile. Ungaretti vi si trasferisce con la famiglia e resta qui fino al 1942. Nell'autunno di quell'anno, il ministro dell'Educazione Nazionale, Giuseppe Bottai, lo nomina, senza concorso ma per chiara fama, professore di Storia della lettertura italiana moderna e contemporanea all'università di Roma. Nello stesso anno gli si aprono le porte della fascistissima Accademia d'Italia. Ma soffiano venti di guerra. E ben presto sarà un ciclone che travolgerà il Regime. Nell'Italia repubblicana Ungaretti sarà sospeso dall'insegnamento. La riabilitazione si farà attendere fino al '47. Dopodiché (Ungaretti ormai si è pentito dei peccati di gioventù, o meglio, di «giovinezza»…) premi, glorie, onori a italici allori.
Dai blog
Generazione AI: tra i giovani italiani ChatGPT sorpassa TikTok e Instagram
A Sanremo Conti scommette sui giovani: chi c'è nel cast
Lazio, due squilli nel deserto