Firme false, veleni, accuse La Fondazione Mia Martini sprofonda in procura
La fondazione Mia Martini, l'estromissione della sorella dalla fondazione dedicata all'artista e il sospetto che la firma di Leda Bertè sia stata falsificata. Le vicende che si svolgono intorno alla fondazione dedicata a una delle più grandi cantautrici italiane, Domenica Rita Adriana Bertè, in arte Mia Martini, si tingono di giallo e vengono narrate negli atti a disposizione della procura della Repubblica di Roma. Il pm Paola Filippi ha infatti chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Vincenzo Palladino, il direttore generale della stessa fondazione. L'uomo, difeso dall'avvocato Giuseppe Falvo, è stato accusato di falso materiale «in quanto - si legge nel capo d'imputazione - al fine di procurare alla fondazione Mia Martini, di cui era Direttore generale, vantaggi derivanti dalla registrazione del marchio Mia Martini per cui era necessario il consenso da parte degli eredi, formava una falsa dichiarazione di consenso con firma apocrifa Leda Bertè». Così, dopo circa venti anni dalla sua scomparsa una delle maggiori artiste italiane si trova, suo mal grado, protagonista di questa storia. Tutto nasce nel 2012 quando «per onorare - denuncia Leda Bertè - la memoria e la vita artistica di mia sorella, nonché della raffinata e intensa interprete da tutti riconosciuta come una delle voci più belle, più importanti e più significative che abbia espresso la musica italiana viene deciso di fondare la fondazione». Vincenzo Palladino entra a far parte del cda e la Bertè viene nominata Presidente. Poco tempo dopo l'indagato avrebbe spinto per registrare il marchio Mia Martini al fine di "tutelare fondazione" e, durante una riunione, «con assurde e pretestuose contestazioni – continua la denuncia - sollevate nei miei confronti in proprio e quale Presidente della fondazione Mia Martini, ben sapendo la contrarietà da parte mia e delle mie sorelle contro il cosiddetto premio Mia Martini (…) veniva disposta la mia revoca da Presidente della fondazione». L'obiettivo, secondo la denunciante, è palese: «relegarmi a mero ruolo di muta e inerme spettatrice». La vittima non ci sta e così decide di incontrare le controparti ma «i predetti(...) paventarono immediate azioni esecutive(…) per il recupero delle somme (pari a 25mila euro cadauno) deliberate nell'assemblea del 17 settembre 2012, da versarsi in favore della fondazione stessa. Trattamento che, tra le righe – si legge nell'atto - mi venne fatto capire che sarebbe stato rivolto anche a me». In altre parole, stando alla denuncia, la sorella di Mia Martini sarebbe stata relegata a un ruolo di secondo ordine all'interno della fondazione e le sarebbe stata paventata la possibilità di sborsare denaro. Ma c'è dell'altro: «In data 19 marzo 2013 - recita la missiva inviata alla donna dal Ministero - abbiamo depositato la dichiarazione della sig.ra Bertè per tentare di superare l'obiezione sollevata dal ministero alla registrazione del marchio in oggetto». La vittima scopre così di aver presentato una dichiarazione al ministero. Dopo essersi informata apprende l'esistenza di una «dichiarazione di consenso redatta su carta intestata della fondazione Mia Martini Onlus asseritamente da me sottoscritta in data 3 ottobre 2013» . Nulla di strano se la Bertè non denunciasse «con assoluta certezza di non avervi mai apposto la mia firma ne il 3 ottobre 2012 ne nel marzo 2013 ed inoltre di non averlo mai consegnato». La donna cerca una spiegazione logica: «Da una sommaria disamina ritengo che la firma potrebbe essere la mia ma certamente la stessa è stata reperita e apposta verosimilmente con il sistema del copia-incolla, dal dottor Vincenzo Palladino». Firme, posti chiave e denaro. Ancora una volta la procura è costretta a occuparsi di chi vuole essere minimamente illuminato da una stella dell'arte italiana.