I sogni infranti di Bob Marley
Tutto quel che gli serviva, Bob Marley se lo portò nella tomba. Letteralmente. Ai piedi della collina giamaicana di Nine Mile, nel mausoleo accanto alla sua casa natale, dove fu sepolto dopo i solenni funerali di Stato nel maggio 1981, il re del reggae riposa tenendosi strette le cinque cose più importanti della sua vita: la sua leggendaria chitarra Gibson Les Paul, una Bibbia, un anello, una piantina di marijuana e l’adorato pallone. Per Bob il calcio era stato il piano B dei sogni. Amava ripetere che se non avesse fatto il musicista sarebbe diventato un asso del football, e che questo sport è «creatività e libertà». Quando scoprì la ferita al piede che lo avrebbe ucciso, pensò a un banale infortunio durante una partitella (era un rito nel backstage) e minimizzò: il calcio non ti ammazza, ogni dolore passa. Era un melanoma all’alluce che fu curato tardivamente, e vanamente. La Bibbia era invece il reticolo di valori in cui cercò conforto quando la malattia lo costrinse a tagliarsi i dreadlock e a provare lo scoramento di non sentirsi più un Rasta. Ma nel Libro si era orientato per tutta l’esistenza, rispecchiandosi in Jah, il Dio che lo aveva abbacinato da cristiano e da rastafariano, la religione ortodossa etiopica imbevuta nel culto di Hailé Selassié come reincarnazione dell’Onnipotente. E anche dopo morto Marley sfoggiava al dito l’anello donatogli dal principe etiope Asfa Wossen, uno dei reggenti della Terra Promessa dove i Neri d’Africa sarebbero stati riuniti per vivere in pace e lontano dalle sopraffazioni politiche e razziale. Quanto alla marijuana, beh, Bob sosteneva che «coltivare l’erba è legale, perché ce l’ha data Dio. O vogliamo forse dire che Dio è illegale?». Certo, non poteva sapere che quello dell’erba sarebbe diventato un business in suo nome, un marchio che sposa la logica e i profitti di quel capitalismo che da idealista fieramente contrastava. Lo scorso 6 febbraio Bob avrebbe compiuto settant’anni: per celebrare la ricorrenza, un brand internazionale finanziato da impreditori «di ventura» ha lanciato la "Marley Natural", marijuana prodotta nello stato di Washington, oltre a capi di abbigliamento realizzati dal trattamento della cannabis. Operazioni gestite di concerto con la famiglia dello scomparso, una stirpe di tredici figli avuti dalla moglie Rita e da altre donne, più centinaia di eredi collaterali, spesso in contrasto fra loro. Così che il brand Marley frutta 20 milioni di dollari l’anno, tra articoli sportivi (li ha indossati anche Usain Bolt), dischi postumi (il 17 febbraio uscirà il live "Marley & The Wailers: Easy Skanking in Boston ’78"), maxieventi (a Kingston è iniziata la settimana per onorare il suo compleanno), alimenti, cosmetici, e gadget di ogni sorta. La 1Love e la Rita Marley Foundation, oltre a veicolare il traffico di concessione di diritti commerciali, investe però proventi in iniziative di beneficenza e sostegno alle popolazioni povere in Africa: in modo da garantire una forma di pace allo spirito dell’autore di "Get up stand up". Perché questo era il desiderio dell’uomo cui nel ’78 l’Onu concesse la medaglia della pace in nome di 500 milioni di africani: creare le condizioni perché il reggae diventasse l’ipnotico, ammaliante ritmo in cui ripetere la parola d’ordine dell’unione, dai ghetti di Kingston fino all’approdo mistico dell’Etiopia. La sua parabola di profeta con la Gibson si svolse tutta fra due concerti in patria: il primo nel dicembre ’76, lo "Smile Giamaica" organizzato dal premier socialista Michael Manley. Due giorni prima dello show, uomini armati (i complottisti ci intravidero la manina della Cia) fecero irruzione a casa di Bob e ferirono lui, Rita e il bassista Aston Barrett. Malgrado l’agguato, Marley accettò di partecipare al concerto: l’accordo era per una canzone, ma cantò per un’ora e mezza. Tuttavia, per salvarsi la pelle, accettò di trasferirsi a Londra, dove il suo mito rock di venne paradossalmente "bianco". Marley tornò a Kingston due anni più tardi, nel ’78: allo storico "One Love Peace Concert" dopo l’esecuzione di "Jammin’", riuscì nell’impresa di far stringere la mano a Manley e al suo rivale conservatore Ed Seaga. Il Paese del reggae sembrava finalmente pacificato, ma era una pia illusione: del resto, l’idea dell’evento era venuta a due gangster che poco dopo sarebbero stati assassinati. Ma c’è un terzo concerto che i fans italiani portano tatuato nell’anima: quello del 27 giugno 1980 a San Siro, centomila ragazzi avvolti nella "beatitudine" di una nuvola sospettosamente profumata. Prima di Marley, al preludio di quel tramonto d’estate, cantò Pino Daniele.