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Addio Pino Daniele, anima blues e chitarra raffinata

E' morto Pino Daniele

di Dario Salvatori 

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I manager della Emi (l'unica multinazionale del disco a spostare la direzione generale da Milano a Roma) giuravano di averlo visto arrivare nella sede di via Oceano Pacifico, zona Eur, con le "cioce", ovvero i sandali fatti di cuoio e stracci utilizzati da pastori e zampognari. Naturalmente non era vero. Un modo perfido e volgare per auto-esaltare il loro fiuto, la capacità di talent scout. Era il 1975 e in realtà Pino Daniele, allora ventenne, era già noto come raffinato chitarrista nel giro dei musicisti napoletani, avendo già collaborato con Tony Esposito, Saint Just (il gruppo di Jenny Sorrenti), Napoli Centrale, Batracomiomachia. Si era in piena Naples Power - il movimento musicale che faceva capo a Napoli con l'intento di rilanciare melodia, suoni elettro-acustici e un pizzico di sperimentazione - e le case discografiche, potenti e coraggiose, investivano nei nuovi talenti. La Ricordi si era assicurata Napoli Centrale ed Edoardo Bennato, la Phonogram suo fratello Eugenio e lo stesso Tony Esposito, la Emi la Nuova Compagnia di Canto Popolare e Alan Sorrenti. Un altro artista napoletano sembrava troppo. Qualche produttore si rifiutò di accoglierlo nella propria scuderia. Se ne pentirono amaramente. A differenza di tutti gli altri conterranei, Pino Daniele aveva già una marcia in più: abile e duttile chitarrista, compositore ispirato e una predilezione per il blues, il genere musicale alla base di tutte le sue scelte. Nella panoramica musicale italiana, in quegli anni dominata dai cantautori in senso stretto, sovente digiuni di musica e poco propensi all'improvvisazione, uno come lui costituiva merce rara. Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, ancora una volta, se ne accorsero per primi ed iniziarono a programmare ad "Alto gradimento" il brano del debutto "'Cà calore", biglietto di presentazione di notevole originalità. Adeguata programmazione anche per "Na tazzulella e cafè", che grazie ai massivi passaggi ad "Alto gradimento" divenne un buon successo. Nel 1977 arriva il primo album, "Terra mia", un omaggio alla sua città ma soprattutto a tutti quei musicisti dell'area napoletana che l'avevano aiutato credendo nelle sue possibilità. Il successo arrivò subito, con le radio a fare da volano al suo classico "Je so' pazzo"(con la celebre rima) del 1979. Già al secondo album l'artista napoletano aveva messo a fuoco il suo stile: blues alla base di tutto, molto funky, etnia a tutto spiano, inglese mischiato all'italiano, napoletano mischiato a tante altre cose. Svariate e a volte contraddittorie le influenze, da quelle dichiarate (praticamente tutti i grandi chitarristi di blues, sia bianchi che neri) a quelle un po' celate (Stevie Wonder, Earth,Wind & Fire) ma sopra ad ogni altra considerazione stilistica la sua capacità di esprimersi nel più puro idioma bluesistico senza perdere un grammo della sua mediterraneità, della melodia napoletana che ha sempre rispettato, sia pure con linguaggio moderno. Questa la sua ricetta e probabilmente anche il suo segreto, che gli ha permesso di diventare un artista "long seller". L'uso del falsetto del blues non è così frequente - da ricordare un altro grande falsettista bianco, Bob Hite, il cantante dei Canned Heat - proprio perché si tratta di un espressione vocale che prevede drammaticità più che dolcezza, corde vocali ruvide, un mezzo vocale aspro e sanguigno. Daniele, pur non potendo contare su una gran cavata di voce, ha fatto del falsetto il suo marchio distintivo, il trademark di immediata riconoscibilità. Quando nel 1980 arriva "Nero a metà" è già una star: l'album è dedicato a Mario Musella, il non dimenticato cantante degli Showmen, valido gruppo napoletano di rhythm and blues popolare negli anni Sessanta. Pino lo ascoltava da adolescente, quando aveva imbracciato la chitarra da pochi mesi, ma quella voce così potente, "scura", in possesso di una comunicativa non comune, lo colpì. Guarda caso, accanto a Musella, scomparso prematuramente, c'era già James Senese, destinato a diventare il suo più stretto collaboratore. Da quel momento le influenze funky e para jazzistiche prendono il sopravvento. Ecco album quali "Vai mò"(1980), "Bella 'mbriana"(1982), "Musicante"(1984), dove abbondano le collaborazioni jazzistiche (Wayne Shorter e Alphonso Johnson dei Weather Report) ma anche quelle più ampie: dal rock con Mel Collins all'etnico con Nanà Vasconcelos al latino puro con Gato Barbieri. Le lente ballate acustiche ("Lazzari felici", "Annarè", "Anna verrà") rendono la sua voce popolare anche presso quel vasto pubblico femminile magari poco interessato alla sua perizia chitarristica e la voglia di esprimersi in napoletano puro sembra aumentare. Se Renato Carosone fu il maestro della commistione fra la melodia e il boogie-woogie (senza perdere di vista lo sfottò e lo sberleffo), Pino Daniele si qualifica "balladier" di gusto, vocalista di notevole emotività. Un passaggio ben documentato da album come "Mascalzone latino"(1989) a "Un uomo in blues"(1991). Se le sue collaborazioni con artisti internazionali quali Chick Corea o Mike Mainieri ne aumentano il prestigio (viene invitato all'Apollo Theatre di New York, all'Olympia di Parigi, al Festival Jazz di Montreux, al Festival di Varadero a Cuba, al Crossroad Guitar Festival di Chicago) le partnership con artisti italiani (Jovanotti, Giorgia, ecc.) accrescono il suo successo commerciale. Anche gli ultimi anni non sono avari di novità e collaborazioni, espressione di una curiosità musicale non certo doma: cita Elvis e Maradona, Troisi e Salif Keita, Al Di Meola ed Eric Clapton. In fondo, l'album "La grande madre"(2012), il primo realizzato in proprio, racconta proprio questo, il Pino Daniele della maturità, dove fra le tante "licenze" affiora per la prima volta anche quella di coniugare il blues con una sorta di rock sinfonico che rimanda al progressive rock dei primi anni Settanta. Dal vivo accade qualcosa di indimenticabile con il lungo tour in quartetto, affiancato da Francesco De Gregori, Ron e Fiorella Mannoia, dove brani celebri quali "Yes I know my way", "Che male c'è" e "E sona mò" assumono tutta un'altra fisionomia. Un quartetto decisamente anomalo, su cui gli stessi impresari nutrivano qualche dubbio. Invece si consolidarono amicizie, soprattutto quella con Francesco De Gregori. Da circa un anno aveva messo a punto la sua nuova edizione di "Nero a metà", ovvero la riproposizione, a trentacinque anni di distanza, del repertorio del suo album più noto accanto ai musicisti preferiti (oltre che amici prediletti): James Senese, Tony Esposito, Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, Joe Amoruso. Una reunion con immutato feeling, con tanta voglia di stupire e di suonare insieme. Ecco, questa può esser considerata se non la sua eredità certamente la sua idea di musica: suonare con i musicisti stimati, tanto divertimento e una generosità sul palcoscenico che non si vedeva da anni. 

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