La sfida di Elena Bonelli: ora la canzone romana entra nelle università

Diciamocelo: la colpa è di noi romani, che non abbiamo accompagnato o promosso con orgoglio la nostra canzone in giro per il mondo, come invece hanno fatto i napoletani con il loro patrimonio musicale popolare. È un derby che dura da secoli, con il risultato sempre sfavorevole alla Capitale. Per invertire la tendenza, da un decennio la talentuosa, meravigliosamente ostinata Elena Bonelli esporta in giro per il pianeta la bellezza della canzone romana. «Un progetto in più tempi», spiega, «varato con Sergio Bardotti, Carlo Lizzani, Pippo Caruso, tra film e concerti. Ho cantato ovunque, dall’Africa al Sudamerica, dalla Corea alla Turchia, o alla Carnegie Hall di New York. Avevo paura che il pubblico non mi applaudisse, e invece è stato sempre un trionfo». E l’1 ottobre, grazie a lei, la canzone romana diventa materia di studio all’università, con ospite anche il rapper Tommaso Zanella. «Terrò alle 11 di mercoledì una lectio magistralis alla Luiss, ma ho già accordi con Tor Vergata e La Sapienza. Poi andrò nei licei e nei conservatori». Una lezione intitolata "Dallo stornello al rap". «Due espressioni popolari che hanno molto in comune. Nascono dalla strada, come dialogo o sfida, e hanno una vocazione di protesta. Lo stornello era un gioco di rimandi, nelle trattorie o nei vicoli. A volte, soprattutto nelle storie di fiume, quando ancora non erano stati costruiti i muraglioni, lo stornello era il richiamo tra bande rivali. "Alla Renella" era una vicenda di coltello, una lite tra rivali, uomini o bande che si azzuffavano». Se guardiamo al repertorio delle canzoni romane dei secoli scorsi, si scoprono capolavori che tengono botta con quelli napoletani. «Ma non hanno mai avuto la stessa fortuna globale perché i primi a snobbarli sono stati proprio gli artisti e gli intellettuali capitolini. Belli non ha mai scritto una canzone romana, e neppure Trilussa, che però si cimentò con il napoletano. E Donizetti, che pure aveva sposato una romana, inventò il "pop" partenopeo con "Io te vojo bene assaje", nel 1839». Si vergognavano di cimentarsi con un genere da loro considerato minore? «Prendiamo Fregoli, Petrolini o Lina Cavalieri. Quando si esibivano fuori dalla nostra città se ne guardavano bene dal proporre canzoni romane. Tra Ottocento e inizio Novecento per Roma fu una disfatta, per Napoli un’epoca d’oro: lì aprivano le botteghe degli autori e degli editori musicali, Ricordi e Bideri vendevano centinaia di migliaia di "copielle", le partiture dei brani, e quella era la capitale della musica europea. Da noi si ribatteva con manifestazioni che non erano di quella levatura culturale: la festa Birindello, o quella di Piazza Navona, di San Giovanni. Per la rinascita romana bisogna aspettare la metà del Novecento, con il lavoro di Claudio Villa e Renato Rascel. Fino a Gabriella Ferri». La vera voce di Roma. «Eppure, anche lei, quando sposò Seva Borzak, nelle sue tournée sudamericane ebbe successo cantando in spagnolo, evitando i testi dialettali». Gabriella e Califano, tutti a celebrarli dopo la scomparsa, ma condannati alla solitudine nell’ultima parte della vita. «Lei aveva un rapporto conflittuale con il padre: morto lui, entrò in una spirale di depressione dalla quale non è mai uscita. E Franco? Tutti a celebrarne il genio di autore romanesco, ma solo al funerale. Entrambi si sentivano abbandonati dal pubblico e snobbati dall’ambiente». Napoli non conosce mai declino, invece. Ha anche potuto contare su un formidabile serbatoio di emigrati, e sull’eff etto-nostalgia di quelle canzoni. «Sì, mentre Roma è una città di immigrazione. Quando Caruso sbarcò in America, all’inizio del secolo scorso, vi trovò centinaia di italiani del Sud lì trapiantatisi in cerca di fortuna. Nel 1909 la casa discografica Victor produsse il primo disco napoletano, e fu boom». Poi c’erano i colpi di genio dei partenopei, come "Funiculì Funiculà". «Quando la funicolare che sale al Vomero fu inaugurata, era talmente veloce e modernissima che i napoletani avevano paura di usarla. Luigi Denza, che era un musicista, aveva aperto un albergo vicino alla stazione di partenza. Siccome gli affari languivano, convinse il giornalista GiuseppeTurco a scrivergli un testo che magnificasse l’impianto. Ne furono vendute 180mila copielle. Ma all’ingegno dei napoletani si aggiungeva il mecenatismo, che dal ’400 di Alfonso d’Aragona all’Ottocento di Ferdinando II ha dato linfa decisiva alla cultura di quella città, dalle villanelle alla tarantella, dall’opera buffa alle canzoni più celebri. A Roma tutto questo è mancato: a inventare la figura di Rugantino fu Edoardo Perino, uno dei piemontesi che rifecero il look all’Urbe dopo l’Unità d’Italia». E ora? «È il momento di prendere atto della grandezza della canzone romana. Anche Venditti ha contribuito: le sue cose le cantano negli stadi, non nelle trattorie. Io ci metto tutta me stessa, per esportare il nostro tesoro. A squarciagola sui palchi del mondo, o con voce appassionata nelle università».