Walter Chiari muore a sessantasette anni
Personalità versatile con la faccia di un «ragazzo normale»
MILANO - Waler Chiari è morto, stroncato da un infarto o da un aneurisma, ieri notte, mentre guardava la tv, nel suo appartamento in un residence milanese. Gli inservienti lo hanno trovato privo di vita, davanti al televisore acceso. L'attore, nonostante avesse ricorrenti problemi di salute (a fine novembre era stato anche ricoverato all'ospedale San Carlo per disturbi vascolari), non aveva avuto alcun segnale premonitore dell'improvvisa fine. La sera prima, anzi, si era recato al Teatro Manzoni di Milano, per applaudire Gino Bramieri in «Foto di gruppo con gatto». Così, il vecchio, eterno ragazzo se n'è andato anche lui. Quando gli erano venuti i capelli bianchi, qualche anno fa, aveva commentato: «casa Chiari ha il suo tetto naturale». Ma dentro gli era rimasta la vivacità di sempre, che ne aveva fatto uno degli attori più simpatici e imprevedibili della scena italiana. CHIARI, MASCHERA SENSIBILE E TRASPARENTE MILANO - L'attore vero Walter Chiari è stato trovato privo di vita, ieri alle 12,30, nella camera della casa albergo di Milano, dove viveva da tempo solo. A rinvenire il suo corpo sono stati alcuni inservienti del residence. Immediate, alla notizia, le reazioni nel mondo dello spettacolo. Un'amicizia di quarant'anni attraversata, ma non incrinata, da un grande dispiacere: proprio al suo culmine. Era l'86, l'ultimo anno in cui dirigevo la Mostra di Venezia. In una saletta del Palazzo del Cinema avevo visto insieme con lui e con il regista Massimo Mazzucco un film che mi aveva affascinato, Romance, dominato dall'interpretazione più intensa della sua carriera: un personaggio di padre che, sentendosi vicino alla morte, si chiama vicino un figlio distratto, per ritrovare un contatto anche se si è ritirato addirittura in cima a una montagna, allontanando tutti da sè. In quel personaggio Walter aveva messo tutta la sua vita «vera», i suoi sconforti, le sue delusioni, il peso di un'età non ancora avanzata (aveva da poco superato i sessant'anni), ma che gli aveva tarpato un po' le ali, impedito certi voli. Aveva impresso tutto sulla sua maschera diventata totalmente trasparente, con una sensibilità che chiaramente, anche in prima persona, lo lacerava e lo feriva. Dopo la proiezione lo abbracciai e scelsi senza esitare il film per il concorso: in ragione dei suoi valori intrinseci (ritengo Mazzucco uno dei «poeti giovani» più fervidi del nostro cinema), ma anche convinto dell'immediata ammirazione che quell'interpretazione di Walter mi aveva suscitato. Il film, dopo, nel corso della Mostra, ottenne un largo successo di critica e Walter, presente alla proiezione, ebbe la sua parte di lodi; meritatissime. Ma vennero le riunioni della giuria, presiedute da Alain Robbe-Grillet. Avevo visto ovviamente tutti i film ed ero quasi certo che il premio per il miglior attore sarebbe toccato a lui ed erano così tanti a loro volta ad esserne sicuri che la sera prima del verdetto circolò la notizia che quel premio gli era stato dato; in realtà ne aveva avuto uno minore, di una organizzazione parallela, la giuria della Mostra gli aveva invece preferito Carlo Delle Piane per Regalo di Natale di Pupi Avati. Rivedo Mazzucco e Walter seduti di fronte a me quando ho dovuto dir loro come erano andate le cose. Walter era così dispiaciuto che attorno a lui, qualche giornalista, subito pubblicamente smentito da Robbe-Grillet, ritenne di poter scrivere che il premio, in un primo tempo gli era stato assegnato ma poi, per ragioni oscure, gli era stato tolto, proprio all'ultimo. L'episodio, fra lui e me, non lasciò ombre, l'ultima volta che l'ho visto, però, pochi mesi fa, quando la sua salute aveva ricominciato a destare preoccupazioni, mi disse malinconico: «Se quella volta a Venezia avessi avuto il premio.... Non riuscirò mai a recitare così!». Quando c'eravamo conosciuti, comunque, anche se veniva dal varietà e al cinema aveva finito per imporsi soprattutto con interpretazioni comiche, specie in alcuni film di Mario Mattoli (Totò al giro d'Italia, I cadetti di Guascogna, Arrivano i nostri), non avevo tardato ad accorgermi che, proprio per quella sua faccia da ragazzone normale, senza veri appigli per la caricatura, aveva anche altre e più salde possibilità di attore, con una gamma ricchissima di sfumature drammatiche. Me lo confermò quel suo Alberto Annovazzi in Bellissima dove il sottobosco di cinecittà trovava nella sua mimica tutte le possibilità di manifestarsi sotto gli aspetti meno simpatici e negativi, disegnati, sotto la guida di un regista come Visconti, con una finezza che spesso, pur non facendo autocritica, raggiungeva il garffio. Si avvicinvano però gli anni della commedia all'italiana e Walter, anche se già cominciava a far molta televisione, secondo gli stessi schemi delle sue riviste giovanili, vi partecipò con allegria, regalandoci una presenza sempre convincente e accattivante: sia con Steno (Un giorno in pretura), sia con Monicelli (Il mostro della domenica), sia con Risi (Donatella), sia con Loy (Made in Italy). Anche in quegli anni, però, non trascurando quella vena meno euforica e più raccolta che alla lunga, pur fra tante interpretazioni estroverse (sul grande e sul piccolo schermo), mostrava sempre più di prediligere. I sapori acri di quelle sue partecipazioni a film d'impegno come L'attico di Gianni Puccini e La rimpatriata di Damiano Damiani! Accontonata quasi del tutto l'ironia e privilegiata invece soprattutto l'amarezza, ricercata nel fondo, portata sottilmente in superficie, elaborata con una mimica, una voce, dei gesti che riuscivano ad evocare sempre attorno ai personaggi un alone scuro, dov'era soprattutto lo sconforto a farsi avanti. Specie nella Rimpatriata dove il tramonto di un dongiovanni, negli anni deludenti di un boom economico anche quello prossimo alla fine, mandava bagliori quasi sinistri; con accenti sofferti e sconsolati. Se con Orson Welles in Falstaff poteva ancora fare ridere, con una classe che andava però di pari passo con un talento ormai più che maturo, eccolo, in quello stesso anno (1966), disegnare con Alessandro Blasetti uno dei suoi personaggi più rotondi e più compiuti, con ironia, se vogliamo, ma di nuovo con cipigli amari. Chi non ricorda il suo Sandro, giornalista tutto borie e egoismi di Io, io, io... e gli altri? In Bellissima, a fianco di Anna Magnani, ce ne aveva dato solo una piccola anticipazione, in cifre piccolo-borghesi, qui, avendo Gina Lollobrigida come partner, approda, grazie anche a un testo cui avevano posto mano, fra gli altri, Suso Cecchi d'Amico, Ennio Flajano, Age e Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi, a un carattere in cui riassume tutti i difetti e le colpe dei precedenti, riscattandoli alla fine con un'umanità che glieli fa capire e superare, pur continuando a guardarvi tra la beffa e l'ironia: con abilità consumata. Il giornalista di Io, io, io... e gli altri, e, esattamente vent'anni dopo, il padre di Romance restano le ue interpretazioni più salde, più elaborate, più sentite. Anche per il film di Blasetti si aspettava un premio: il Nastro d'argento dei giornalisti cinematografici. L'ebbe invece Totò per Uccellacci, uccellini. A quell'epoca sapeva ancora sorridere, alzò le spalle e mi disse: «Sarà per un'altra volta, ho tempo».