Togliatti, il cinismo di un «mito»
Il suo principio della «democrazia progressiva» era un inganno Padre costituente? Nel 1930 rinunciò alla cittadinanza italiana
Il 21 agosto 1964 moriva Palmiro Togliatti, uno dei protagonisti della storia del Novecento. Il suo ultimo scritto, il "memorandum di Yalta", pubblicato postumo e presentato come ideale testamento, fu letto quale dimostrazione dell'intelligenza di un leader pronto a portare il Pci sull'orlo di una frattura con il Pcus e a caldeggiare l'idea di una politica "nazionale" dei partiti comunisti europei. In realtà, esso, predisposto in vista di una conferenza internazionale che avrebbe dovuto condannare la Cina, non lasciava trasparire velleità di autonomia da Mosca: lo dimostravano i paragrafi dedicati alla politica estera, in particolare alla Nato e al Mec dai quali emergeva che i partiti comunisti, a cominciare dal Pci, sarebbero dovuti rimanere fedeli alle istruzioni di Mosca. Il rapporto fra Togliatti e l'Urss fu sempre stretto. Togliatti trascorse in Urss molti anni. Giunto nella patria del comunismo nel 1926, si schierò con Stalin nella lotta di potere per la successione di Lenin. E di Stalin seguì, approvò e giustificò scelte e decisioni, anche le più criminali, poco importa se per convinzione o per timore di finire pur egli vittima delle "purghe". Quando ci furono i processi di Mosca che portarono alla liquidazione fisica della vecchia guardia bolscevica, non esitò ad aggiungere la sua voce al coro di coloro che plaudivano alle purghe del Robespierre sovietico e ad esaltare "l'inflessibile giustizia socialista". Alla fedeltà al dittatore non venne mai meno anche a costo di tradire gli stessi compagni, primo fra tutti Antonio Gramsci. Del resto, le parole da lui pronunciate in occasione della morte del dittatore, il 6 marzo 1953, sono emblematiche: «Stalin è un gigante del pensiero, è un gigante dell'azione. Col suo nome verrà chiamato un secolo intero, il più drammatico forse, certo il più denso di eventi decisivi della storia faticosa e gloriosa del genere umano». Malgrado il passato di alto dirigente del Comintern e le incontestabili caratteristiche di stalinista di ferro, malgrado il ruolo di zelante esecutore delle direttive di Mosca anche attraverso la delazione su compagni di partito, malgrado il cinismo dimostrato sulla sorte dei prigionieri italiani in Urss, malgrado la condanna delle rivolte nelle democrazie popolari, malgrado l'entusiasmo col quale salutò l'invasione dei carri armati russi a Budapest e via dicendo, Togliatti viene periodicamente presentato come alfiere di democrazia e antesignano della "via italiana al socialismo": un politico illuminato più socialdemocratico che comunista. Della storia dell'Italia democratica, "il Migliore" ebbe gran parte, anche come "padre costituente". Ciò è incontestabile, ma, a proposito del suo patriottismo, vale la pena di rammentare che nel 1930 rivendicò orgogliosamente la rinuncia alla cittadinanza italiana perché - disse allora - come italiano si sentiva «un miserabile mandolinista e nulla più» mentre, come «cittadino sovietico» sentiva di «valere dieci volte più del migliore italiano». Il rapporto fra Togliatti e Stalin spiega molto della storia del Pci, della "doppia lealtà" cui questo ispirò la sua azione politica. Gran parte della storiografia di orientamento comunista ha cercato di avallare miti che riaffiorano pertinaci. Uno di questi, gravido di conseguenze nella vita politica dell'Italia postbellica, interpreta la storia del Pci come storia di continua evoluzione verso una sempre maggiore autonomia da Mosca e dalle sue decisioni. Nel volume, Togliatti e Stalin (Il Mulino, 2007), Victor Zaslavsky ed Elena Aga Rossi ridussero in frantumi questo mito, dimostrando che la maggior parte dei dirigenti del Pci apparteneva a una élite rivoluzionaria guidata dall'Urss, addestrata in Urss e proprio dall'Urss inviata in Italia a fare politica. Essi fecero vedere che il Pci - per i suoi collegamenti ideologici, funzionali e strutturali con il comunismo internazionale - non poteva essere considerato alla stregua di un qualsiasi altro partito operante nel sistema politico italiano. I due smontarono anche un altro mito, quello della cosiddetta "svolta di Salerno". La storiografia comunista aveva sostenuto che quella "svolta" - cioè il proposito di Togliatti, rientrato in Italia nel 1944, di collaborare con Badoglio e la monarchia - fosse frutto di una decisione autonoma rispetto a Mosca e rappresentasse il primo passo di un graduale affrancamento del Pci dall'influenza sovietica. Hanno dimostrato che, al contrario, fu proprio Stalin a volere la svolta. Le loro conclusioni resero obsolete la maggior parte delle ricerche storiografiche precedenti sul Pci, basate su due presupposti errati: la sopravvalutazione dell'indipendenza del Pci da Mosca durante il periodo di Stalin e la sottovalutazione della capacità del sistema staliniano di controllare e guidare all'estero i suoi meccanismi distorsivi dell'informazione. Del resto, sulla vocazione rivoluzionaria del Pci durante la lotta per la liberazione anche Renzo De Felice osservò che il gruppo dirigente del Pci non aveva mai accettato che «la lotta partigiana dovesse portare a un ritorno alla democrazia "parlamentare borghese" e che la svolta di Salerno potesse non essere un espediente tattico» aggiungendo che a quella svolta non poteva «essere attribuito alcun carattere di autonomia politica rispetto all'Urss». Alla base di questa alterazione della verità storica c'era il fatto che l'Urss era riuscita a veicolare l'idea mitologica dell'assimilazione dell'antifascismo alla democrazia in nome del principio dell'unità della Resistenza dimenticando che per i comunisti la Resistenza era concepita come un grande evento rivoluzionario. Che tale assimilazione fosse ideologicamente fuorviante lo dimostra la considerazione che, se è vero che la democrazia presuppone l'antifascismo, non è altrettanto vero che l'antifascismo presupponga la democrazia. Eppure, questa equazione errata, sulla quale si fondava il principio togliattiano della "democrazia progressiva", finì per dominare la cultura politica italiana, segnatamente storiografica, grazie al peso di quella egemonia culturale comunista e azionista che ha elevato l'antifascismo a ideologia di Stato. A distanza di mezzo secolo dalla scomparsa di Togliatti, la rivista Nuova Storia Contemporanea presenta un fascicolo speciale che si propone di riconsiderarne la figura e l'attività, senza nulla togliere alla sua abilità di uomo politico spregiudicato e intelligente ma profondamente cinico, per metterne in luce la vera personalità e sfatare la leggenda di una rappresentazione unitaria della storia del Pci, come quella di un partito a vocazione "nazionale". I saggi del dossier offrono un quadro esaustivo. Massimo Caprara, per tanti anni suo segretario, tratteggia il ritratto umano di Togliatti, mentre Piero Ostellino ne ricostruisce il comportamento durante le purghe degli anni trenta e Luciano Pellicani ne studia il ruolo di rifondatore del Pci. Antonio Ciarrapico si sofferma sulla "democrazia progressiva" come punto d'arrivo del progetto politico di Togliatti mentre Alberto Indelicato analizza gli esiti concreti delle sue scelte in politica estera inquadrandole nelle direttrici di politica internazionale dell'Urss e Giuseppe Bedeschi ne illustra il comportamento di fronte alla rivolta ungherese del 1956. Luigi Nieddu mette a confronto le figure di Togliatti e Gramsci, mentre Sergio Bertelli si occupa della relazione fra Togliatti e la sua segretaria Nina Bocenina. Infine Pietro Neglie si sofferma sulla strategia comunista di egemonizzazione della cultura mentre Natalia Terekhova traccia un bilancio dei giudizi della storiografia sovietica e di quella russa su Togliatti. Nel complesso, i saggi di questi studiosi costituiscono un importante contributo alla verità storica e un antidoto alla prevedibile invasione di pubblicazioni agiografiche su Togliatti in occasione del cinquantesimo anniversario della sua morte.