Adelphi La casa dei libri «proibiti»
"All'inizio si parlava di 'libri unici'", ricorda Roberto Calasso, raccontando i cinquant'anni dell'Adelphi ("L'impronta dell'editore", pp. 164, € 12), a partire da quell'incontro con Bobi Bazlen ed altri amici in cui fu tratteggiato il profilo della nuova iniziativa editoriale. All'inizio, il nome -Adelphi- non c'era ancora. Un paio i dati sicuri : la volontà di pubblicare l'edizione critica delle opere di Nietzsche e quella di dare il via a una collana di Classici, filologicamente accurata e affidata ad eccellenti stampatori. Come Mandersteig, un maestro della tipografia, un "classico" per i "classici". E meritava quell'aurea insegna anche Nietzsche, "capostipite" dell'"irrazionale" e fieramente avversato da buona parte della cultura "politicamente corretta". Anche il "fantastico" era oggetto di fiere rampogne censorie, ma Adelphi non se ne curò e provocatoriamente scelse come "numero uno" della "Biblioteca" il romanzo "L'altra parte" di Alfred Kubin, "esempio di fantastico allo stato chimicamente puro". Al pari de "Il manoscritto di Saragozza" di Jan Potocki che figurava al numero tre della collana. Ma perché a Bazlen piaceva tanto il termine "libro unico"? Perché le opere via via "elette" erano segnate da una esperienza forte, in certi casi estrema, di vita e di pensiero: un' esperienza che si era "depositata" in una "scrittura" altrettanto originale. Cinquant'anni fa. Ora, il catalogo Adelphi è fatto di centinaia di titoli e, per dirla con Elias Canetti, è "il più bello del mondo". Certo è uno dei più qualificati. Siamo di fronte a una casa editrice "di rango e "di culto" ed anche chi la considera una sorta di chiesa letteraria gnostica si profonde in esercizi di ammirazione. Come negarle, infatti, una fedeltà adamantina a quell' "arte dell'editoria" che da sempre rivendica? E che, come Calasso ha ricordato in più occasioni, consiste nella "capacità di dar forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro". Linguaggio criptico, "da" e "per" iniziati? Suggestioni di nicchia o addirittura di sètta, quelle adelphiane? Snobismo elitario, sprezzo identitario? Niente di tutto questo. Diciamo, molto semplicemente, che il criterio che legittima le scelte è quello del "valore". Il valore delle idee, delle invenzioni, della scrittura: ecco l'"unicità". Ecco la "dote" che si richiede: lo stile. E a questo punto non c'è "politicamente corretto" che valga. Cinquant'anni fa, Adelphi comincia a liberare Nietzsche dai ceppi, di sinistra o di destra, che lo vincolano, restituendolo alle sue folgorazioni eretiche, ad una predicazione "aperta", che sdegna qualunque etichetta. Ma ce ne saranno tanti altri di "impresentabili"/"imperdonabili". Come Max Stirner, l'autore de "L'Unico", libro di culto di anarchici e fascisti in ordine sparso. Come gli alfieri della "rivoluzione conservatrice" tedesca: Jünger, Spengler, Benn, Schmitt, il Mann di "Considerazioni di un impolitico", l'Heidegger del monumentale saggio su Nietzsche. Come il rumeno-parigino Cioran, un fiammeggiante nihilista antimoderno, che per anni aveva trovato ricetto solo tra i piccoli editori della destra anticonformista. Come René Guenon, uno dei più grandi studiosi delle simbologie occidentali e orientali, su cui pesava l'interdetto laico, democratico e progressista. Come i "nostalgici" dell'"Austria Felix", spesso bollati come decadenti e reazionari: Roth, Lernet-Holenia, Zweig, Schnitzler, Perutz. Come Carlo Michelstaedter, Simone Weil e Cristina Campo, luminosi e inquietanti "cercatori di assoluto" . "Imperdonabile" Adelphi che pubblica decine e decine di classici a carattere religioso, mistico e sapienziale, ma riscopre anche l'ironia sulfurea di Flaiano; che ripropone in volumi di squisita fattura preziosi testi ermetici (ad esempio, l'"Hypnerotomachia Poliphili" di Francesco Colonna), ospitando nelle sue "nicchie" investigatori di miti, riti, alchimie ecc. come Frazer, Dumezil, Corbin, Baltrušaitis, Coomaraswmy, Zolla, e al tempo stesso conquista un vasto pubblico con best-seller come "L'insostenibile leggerezza dell'essere" di Milan Kundera o "La versione di Barney" di Mordechai Richler; che tesse fascinazioni aristocratiche con Borges e Pessoa, ma coinvolge migliaia di lettori con i romanzi della scrittrice ebreo-ucraina Irène Némirosvky (da oggi in libreria, "Una pedina sulla scacchiera", una nuova storia di amore, disamore, ambizione nella Parigi degli anni Trenta) e con quelli "d'atmosfera" di Georges Simenon, rilanciandolo come uno dei più grandi talenti narrativi del '900. Insomma, siamo ai best-seller di qualità. Se, per dirla con Franz Blei, "lo stile è l'impronta di ciò che si è su ciò che si fa", l'impronta di Adelphi è quella dell'intelligenza che, senza rinunciare a se stessa, anzi!, "fa" successo. «All’inizio si parlava di "libri unici"», ricorda Roberto Calasso, raccontando i cinquant’anni dell’Adelphi («L’impronta dell’editore», 164 pagine, 12 euro), a partire da quell’incontro con Bobi Bazlen e altri amici in cui fu tratteggiato il profilo della nuova iniziativa editoriale. All’inizio, il nome - Adelphi - non c’era ancora. Un paio i dati sicuri: la volontà di pubblicare l’edizione critica delle opere di Nietzsche e quella di dare il via a una collana di Classici, filologicamente accurata e affidata ad eccellenti stampatori. Come Mandersteig, un maestro della tipografia, un «classico» per i «classici». E meritava quell’aurea insegna anche Nietzsche, «capostipite» dell’«irrazionale» e fieramente avversato da buona parte della cultura «politicamente corretta». Anche il «fantastico» era oggetto di fiere rampogne censorie, ma Adelphi non se ne curò e provocatoriamente scelse come «numero uno» della «Biblioteca» il romanzo «L’altra parte» di Alfred Kubin, «esempio di fantastico allo stato chimicamente puro». Al pari de «Il manoscritto di Saragozza» di Jan Potocki che figurava al numero tre della collana. Ma perché a Bazlen piaceva tanto il termine «libro unico»? Perché le opere via via «elette» erano segnate da una esperienza forte, in certi casi estrema, di vita e di pensiero: un’esperienza che si era «depositata» in una «scrittura» altrettanto originale. Cinquant’anni fa. Ora, il catalogo Adelphi è fatto di centinaia di titoli e, per dirla con Elias Canetti, è «il più bello del mondo». Certo è uno dei più qualificati. Siamo di fronte a una casa editrice «di rango e di culto» e anche chi la considera una sorta di chiesa letteraria gnostica si profonde in esercizi di ammirazione. Come negarle, infatti, una fedeltà adamantina a quell’«arte dell’editoria» che da sempre rivendica? E che, come Calasso ha ricordato in più occasioni, consiste nella «capacità di dar forma a una pluralità di libri come se essi fossero i capitoli di un unico libro». Linguaggio criptico, «da» e «per» iniziati? Suggestioni di nicchia o addirittura di sètta, quelle adelphiane? Snobismo elitario, sprezzo identitario? Niente di tutto questo. Diciamo, molto semplicemente, che il criterio che legittima le scelte è quello del «valore». Il valore delle idee, delle invenzioni, della scrittura: ecco l’«unicità». Ecco la «dote» che si richiede: lo stile. E a questo punto non c’è «politicamente corretto» che valga. Cinquant’anni fa, Adelphi comincia a liberare Nietzsche dai ceppi, di sinistra o di destra, che lo vincolano, restituendolo alle sue folgorazioni eretiche, ad una predicazione «aperta», che sdegna qualunque etichetta. Ma ce ne saranno tanti altri di «impresentabili»/«imperdonabili». Come Max Stirner, l’autore de «L’Unico», libro di culto di anarchici e fascisti in ordine sparso. Come gli alfieri della «rivoluzione conservatrice» tedesca: Jünger, Spengler, Benn, Schmitt, il Mann di «Considerazioni di un impolitico», l’Heidegger del monumentale saggio su Nietzsche. Come il rumeno-parigino Cioran, un fiammeggiante nichilista antimoderno, che per anni aveva trovato ricetto solo tra i piccoli editori della destra anticonformista. Come René Guenon, uno dei più grandi studiosi delle simbologie occidentali e orientali, su cui pesava l’interdetto laico, democratico e progressista. Come i «nostalgici» dell’«Austria Felix», spesso bollati come decadenti e reazionari: Roth, Lernet-Holenia, Zweig, Schnitzler, Perutz. Come Carlo Michelstaedter, Simone Weil e Cristina Campo, luminosi e inquietanti «cercatori di assoluto». «Imperdonabile» Adelphi che pubblica decine e decine di classici a carattere religioso, mistico e sapienziale, ma riscopre anche l’ironia sulfurea di Flaiano; che ripropone in volumi di squisita fattura preziosi testi ermetici (ad esempio, l’«Hypnerotomachia Poliphili» di Francesco Colonna), ospitando nelle sue «nicchie» investigatori di miti, riti, alchimie ecc. come Frazer, Dumezil, Corbin, Baltrušaitis, Coomaraswmy, Zolla, e al tempo stesso conquista un vasto pubblico con best-seller come «L’insostenibile leggerezza dell’essere» di Milan Kundera o «La versione di Barney» di Mordechai Richler; che tesse fascinazioni aristocratiche con Borges e Pessoa, ma coinvolge migliaia di lettori con i romanzi della scrittrice ebreo-ucraina Irène Némirovsky (da oggi in libreria, «Una pedina sulla scacchiera», una nuova storia di amore, disamore, ambizione nella Parigi degli anni Trenta) e con quelli «d’atmosfera» di Georges Simenon, rilanciandolo come uno dei più grandi talenti narrativi del ’900. Insomma, siamo ai best-seller di qualità. Se, per dirla con Franz Blei, «lo stile è l’impronta di ciò che si è su ciò che si fa», l’impronta di Adelphi è quella dell’intelligenza che, senza rinunciare a se stessa, anzi!, «fa» successo.