L'uomo della monarchia

Assistevo,in compagnia di mio padre, a quelle Tribune politiche che la televisione trasmetteva, ovviamente in bianco e nero, ed una sera si affacciò dal piccolo schermo un signore distinto, dai modi gentili, dall'oratoria pastosa e chiara che con espressioni limpidissime rispondeva a tutte le domande che gli venivano rivolte da giornalisti non sempre altrettanto educati. Qualcuno si faceva beffe della fede monarchica dell'allora segretario del Pdium, apostrofandolo sarcasticamente nel tentativo di metterlo in difficoltà. Ma Covelli accoglieva quasi con soddisfazione le provocazioni perfino volgarotte (niente a che fare comunque con quelle che che oggi ci vengono proposte in tutti i talk show) che avrebbero dovuto imbarazzarlo nelle intenzioni degli interlocutori, rilanciando la palla nel campo avversario con argomentazioni che finivano per smontare gli incauti «provocatori». Mi piaceva quel signore cinquantenne, raffinato nei modi e forbito nell'eloquio, il quale oltre a rivendicare il suo attaccamento alla monarchia sabauda si presentava come un assertore della difesa della legalità democratica sostenendo i valori costituzionali attorno ai quali ricostruire un sentimento patriottico devastato dalla guerra civile. Mio padre, che abitualmente leggeva il Corriere della sera, il Roma, Il Tempo e Il Borghese, più che soddisfare le mie curiosità su quell'uomo politico che mi aveva tanto positivamente impressionato, mi consigliò di cominciare a sfogliare i giornali che portava in casa per saperne di più. Mi diceva, infatti, che a poco o niente sarebbe servito che lui mi parlasse di Covelli se non avessi avuto un minimo di conoscenza della politica nazionale della quale quel signore che mi affascinava era un protagonista di primo piano ed esponente significativo dell' opposizione agli assetti di potere del tempo. Seguii il consiglio e, con l'aiuto di papà, cominciai a decifrare gli arcani della politica italiana, a conoscere quel mondo che poi sarebbe stato mio, a collezionare mentalmente, come le figurine dei calciatori che attaccavo nell'album, i leaders dei partiti e degli esponenti più importanti di quel circolo esclusivo che pure era capace di eccitare gli animi perfino in un paesino come il mio dove la passione politica si dispiegava nei bar, sui marciapiedi, nelle botteghe artigiane. Poi, perlopiù in occasione delle elezioni, arrivavano deputati e senatori e la piazza si affollava, tutti accorrevano, la democrazia viveva tra la gente. Una volta venne anche quel Covelli che mi aveva così colpito. Era di Bonito, in provincia di Avellino; il suo collegio elettorale comprendeva dunque anche il Sannio e Benevento in particolare gli era nel cuore non soltanto perché aveva espresso i primi sindaci monarchico-missini nell'immediato dopoguerra, ma per essere la città dell'onorevole Raffaele De Caro, mitico presidente del Partito liberale italiano, del quale il giovanissimo Covelli era stato collaboratore quando lui era ministro dei Lavori Pubblici. Lo andai a sentire in compagnia di mio padre che, per quanto legato al Movimento Sociale Italiano, lo stimava considerandolo in primo luogo un galantuomo, mettendo in secondo piano la sua pregiudiziale antimonarchica. (...) Devo forse a Covelli, prima che a Giorgio Almirante, la nozione che ha segnato l'avvio del mio noviziato politico, vale a dire il valore della «pacificazione nazionale» fondata sul rispetto delle istituzioni e sulla rivendicazione della storia patria senza mettere nulla tra parentesi. E nelle piazze, nel suo partito,in Parlamento, Covelli non ha mai fatto mancare, anche quando il conflitto si faceva più aspro, il riferimento alla concordia che considerava fondamento dello sviluppo e dell'affermazione della coesione sociale, elemento ineludibile, quindi, per la ricostruzione della trama comunitaria della nazione italiana. In questo senso Covelli ha espresso al meglio una concezione della destra che lui immaginava, fin dalla metà degli Cinquanta, «plurale» ed unita, nel senso che diverse componenti, riconoscendosi in un quadro politico ed istituzionale accettato e condiviso, potessero svolgere una legittima battaglia per costruire un'alternativa al potere centrista che occhieggiava alla sinistra antinazionale. E da uomo di destra, per quanto monarchico, riconosceva nella figura del presidente della Repubblica il riferimento unitario ed ultima istanza di difensore delle istituzioni: «In una assemblea democratica come questa a nessuno può sfuggire la necessità che tutto quello che concerne la vita, la funzione, la condizione del Capo dello Stato (che è il simbolo della Nazione, e perciò al di sopra de partiti) debba essere sottratto al gioco politico e alle manovre dei partiti», disse alla Camera il 27 novembre 1964 nel dibattito sulla procedura seguita per dichiarare l'impedimento del presidente Antonio Segni. Fu uomo delle istituzioni Covelli che rispettò maniacalmente pur avendo votato, insieme con altri sessantuno Costituenti contro la Carta Costituzionale; fu uomo del Parlamento la cui centralità non mancò mai di sostenere e salvaguardare; fu uomo di parte capace di guardare all'interesse nazionale. E fu anche uomo europeo identificandosi, nelle istituzioni internazionali delle quali fece parte, nel processo di integrazione continentale, senza svendere l'identità nazionale. Intervenendo alla Camera sul disegno di legge per l'elezione diretta dei deputati italiani al Parlamento europeo, memore delle sue radici, nel suo ultimo discorso a Montecitorio, il 18 gennaio 1979, Covelli disse: «Non intendiamo frapporre indugi a quello che sarà il primo vero incontro dei popoli europei; un incontro che servirà a far compiere insieme un notevole salto di qualità in virtù del quale, partendo dall'unione doganale, si potranno raggiungere i lidi della piena integrazione politica ed economica, illuminando e rasserenando le coscienze sugli aspetti della evoluzione europeista dei problemi nazionali: evoluzione, si dice con una certa preoccupazione, irreversibile. Certamente non si può più pensare di affrontare e risolvere problemi nazionali senza inquadrarli in una dimensione europea. Questo non significherà annullare le tradizioni nazionali, i valori nazionali, le peculiarità nazionali: significherà soltanto fondere gli apporti dei singoli Stati, amalgamare gli interessi dei singoli Stati, armonizzare nel modo migliore i problemi dei singoli Stati per poter procedere più speditamente alla costruzione dell'Europa, un'Europa dei popoli sintesi della civiltà delle nazioni che la compongono. Un'Europa siffatta, anche se irreversibile, non può, non deve preoccupare nessuno. È l'Europa che noi vogliamo: una Europa che, dissolvendo le residue e pervicaci velleità di egemonia di qualcuno dei suoi membri, possa rappresentare la forza che manca oggi nell'assetto politico del mondo civile». Questo passo mi sembra di estrema attualità, come se Covelli presagisse quel che sarebbe diventata l'unione europea ed avesse voluto esorcizzare i pericoli che rischiano di decomporla. Il tema della sovranità e dell'Europa è sotto i nostri occhi: ci domanderemo a lungo che cosa sarebbe accaduto se europeisti e nazionalisti tanto avveduti avessero avuto la possibilità di guidare e completare il processo di integrazione con la ragionevolezza della politica senza farsi intimidire e condizionare da poteri sovranazionali cui sono state delegate imponenti quote di sovranità fino a ridurre gli Stati nazionali ad appendici di burocrazie senz'anima. (...) Mi sono domandato tante volte in questi anni chi ha memoria di Alfredo Covelli, delle sue battaglie ideali, dei sui coltissimi discorsi politici, della sua oratoria non soltanto parlamentare. Voglio credere che le ragioni che lo spinsero a servire il Paese siano ancora ben presenti ad una minoranza che, nonostante tutto, ha ancora a cuore una certa idea della politica come impegno civile, disinteressato e onesto. La figura di Covelli, rimasta comunque in bianco e nero nella mia mente, giganteggia tra i protagonisti di un passato neppure tanto lontano che dovremmo riscoprire proprio mentre le nuvole si addensano minacciose sulla malandata Repubblica.