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di Lorenzo Tozzi È il momento dei giovani per il cartellone di S.

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Dastasera (Sala S. Cecilia ore 18 con consuete repliche lunedì e martedì) due valenti giovani musicisti tenteranno di sedurre il pubblico capitolino con le note di Beethoven e Ciaikovsky. Sul podio ci sarà, al suo debutto romano come concertatore, il direttore danese di origini polacco-israeliane Nikolaj Znaider, grande violinista (lo ascolteremo sempre a S. Cecilia in questa veste l'8 marzo col suo splendido Guarnieri del Gesù del 1741 accanto al pianista lituano Robert Kulek in un variegato programma), ma al pianoforte siederà per il Concerto n.2 (1798) di Beethoven il palestinese Saleem Abboud Ashkar, felicemente «scoperto» dal pubblico romano quando lo scorso dicembre fu chiamato all'improvviso a sostituire l'indisposto Radu Lupu, tra gli ultimi grandi miti della tastiera, nel Concerto n. 1 di Beethoven. Già primo direttore ospite, su invito di Gergeiev, al Mariinsky di San Pietroburgo, il trentaseienne Znaider è già salito sui podi delle più grandi orchestre internazionali da Londra a Monaco di Baviera, da Dresda a Los Angeles. Sarà lui ad aprire la serata con Ramification (1968) dell'ungherese György Ligeti, ma soprattutto a chiuderla con la Quarta Sinfonia (1878) di Ciaikovsky. Ma le orecchie saranno tutte anche per il giovane pianista Ashkar, nato a Nazareth nel 1976 e già debuttante a soli 22 anni alla Carnegie Hall di New York. L'incontro ravvicinato non sarà solo però tra due interpreti di opposte tradizioni, uno palestinese e l'altro di origine israeliana, ma anche tra due modi di concepire il sinfonismo, quale quello viennese, classico, beethoveniano e quello tardoromantico ciaikovskiano. Un derby a distanza che certamente si chiuderà in un pareggio, non essendo destinato davvero a scontentare nessuno. Beethoven difatti, pur essendo alieno da esagerazioni romantiche, muove da un solido concetto della forma musicale, che però violenta e coarta a seconda delle sue imperiose urgenze espressive. Una forma dunque che resta nei contenuti, ma spesso è contraddetta e messa in discussione dall'interno. Ciaikovsky invece porta nella musica la visceralità autobiografica, il sentimento più adamantino. Non si preoccupa della funzionalità elaborativa dei temi, ma della loro cantabilità, prende insomma alla gola senza passare per il cervello. Non a caso ancora cinquant'anni fa veniva considerato con sospetto, anzi un decadente, proprio come Puccini, dalla musicografia ufficiale, disposta a ritenere l'asse austro-tedesco (da Mozart attraverso Beethoven sino a Brahms) la linea ufficiale doc del sinfonismo europeo. Non solo si confrontano qui due diversi modi di scrivere la musica, con la diversa dialettica bitematica, le contrapposizioni di regioni tonali, il contrasto fonico e caratteriale delle idee musicali, ma anche la stessa poetica musicale (sinfonia e concerto sono affini e ricevono solo una diversa destinazione strumentale). Con Beethoven infatti, dopo i modelli «neutri» di Haydn e Mozart, la Sinfonia ed il Concerto non solo diventano contenitori aulici e solenni, ma anche volano di messaggi che da un compositore dalla rinnovata ed inedita missione sociali, non più lacchè dell'aristocrazia ma vate dei tempi nuovi, si indirizzano all'umanità intera. Messaggi spesso extramusicali che mettono quasi in crisi l'idea stessa di una musica «assoluta», cioè astratta, puro evento sonoro, per raccontare le miserie, la grandezza, l'eroismo dell'uomo dinanzi al suo destino, il bisogno di una solidale fratellanza tra gli uomini di buona volontà. Messaggi sui quali non poco giocò la sconvolgente epoca di quello scorcio di trapasso epocale che passò dall'egalitarismo della Rivoluzione francese sino alle campagne napoleoniche ed alla disfatta definitiva di Waterloo. Ciaikovsky invece porta nella musica la sua vita, il suo dramma vissuto ogni giorno in una Russia repressiva e perbenista, la sua ribellione verso ingiustizie che riguardano non l'umanità come complesso sociale, ma l'uomo come individuo irrepetibile ed unico. Il dramma diventa tragedia. E basta vedere gli approdi sinfonici finali dei due per averne riprova. Se l' ultima Sinfonia di Beethoven, la Nona «Corale», con l'Ode alla gioia schilleriana lancia messaggi di speranza al consorzio umano, nella Patetica (Sesta ed ultima Sinfonia) Ciaikovsky celebra con poche settimane di anticipo la sua morte. Fu del resto lui stesso a definirla in una sua lettera, il suo Requiem. Cosa per altro non incredibile se si accetta la tesi della Berberova, ormai accreditata, del suicidio indotto del musicista per evitare lo scandalo di una relazione omosessuale con un giovane del Collegio di San Pietroburgo. A noi posteri fortunatamente non necessita un'ardua sentenza ossia una scelta di campo. Ludwig e Piotr possiamo infatti senza remore amarli egualmente.

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