Ciao Mariangela ci hai fatto sognare
Addio alla Melato, signora dello spettacolo Sublime sulla scena, in teatro come al cinema
Negliultimi mesi aveva più volte interrotto la tournée e, conoscendo la sua serietà professionale, la causa non poteva essere che il continuo aggravarsi di una malattia al pancreas che l'aveva colpita e contro cui combatteva con tutte le sue forze. Esile e grintosa, sensibile e lucida, misteriosa e diretta, possedeva tutte le corde interpretative e dominava ogni registro emotivo. Signora insuperata del palcoscenico, presto rubata anche dal cinema, era unica e memorabile persino nei ruoli più lontani da lei e dalla sua storia come si è visto di recente con la Filumena Marturano televisiva, magistralmente affrontata nonostante le condizioni di salute già precarie. «Sono una ragazza di ringhiera» amava dire di sé, ricordando le sue origini milanesi e connotandosi con la semplicità delle anime elette. Era naturale nella vita come sulla scena, ma la sua magnetica energia non era solo nutrita di vivace spontaneità, bensì calibrata in un percorso costante di consapevole e meditato lavoro. Instancabile e perfezionista, non lasciava mai nulla al caso, preparandosi per ogni nuova sfida artistica con esemplare umiltà. «Finirò per montarmi la testa!», mi scrisse via sms per ringraziare di una recensione, abitudine che aveva con regolarità, non credo per lusingarmi come critico teatrale, ma piuttosto per confermare la sua calda e viva amicizia. «Mariangela è nata imparata e balla con l'autoironia» mi disse di lei Don Lurio, che era stato convocato per insegnarle alcuni passi; in effetti era una delle poche attrici italiane in grado di muoversi come una danzatrice professionista e l'ha dimostrato tante volte, soprattutto nel suo one woman show «Sola me ne vo' per la città». Ci teneva a raccontare il suo passato di bambina fragile e di adolescente tranquilla, il suo primo impiego come vetrinista e i timori di suo padre per l'eventualità di un suo ingresso nel mondo dello spettacolo, ma il successo immediato e fin da subito decisivo non poterono che incoraggiarla a continuare. «Mi conosco abbastanza perché questo mestiere va fatto approfondendo se stessi oltre che gli altri», dichiarava, descrivendosi così: «Ho un'immagine precisa di me. So per certo di essermi sempre comportata bene, immodestamente, e di provare stimolo e interesse solo per le persone buone. Molte donne amano i potenti, i forti, i furbi, io ho sempre cercato il contrario. Sento il fascino che proviene dalla bontà che per me non significa saper incassare, ma essere in grado di vivere, di dare agli altri e di capire. È ineluttabile la mia dimensione pubblica di figura autoritaria e determinata che mi induce a mostrare un carattere più forte di quello che ho: mi rendo conto che posso fare paura, è l'esigenza di doversi far rispettare, spesso richiesta dal mio lavoro». Ogni personaggio era per lei un incontro reciproco, un'avventura totalizzante, un cammino esistenziale. «Blanche mi ha consumato» commentò in occasione di «Un tram che si chiama desiderio», regalandoci la migliore versione del capolavoro di Williams ed è impossibile non rivederla nei tanti volti con cui ha restituito le creature più disparate: dalla straziante Ersilia Drei del pirandelliano «Vestire gli ignudi» alla stilizzatissima Medea diretta da Sepe con calzamaglia nera e capelli rasati, da «Anna dei miracoli» di Gibson alla piccola Maisie di James, dalla duplice prova en travesti del brechtiano «L'anima buona del Sezuan» all'ultimo «Nora alla prova» che le ha fruttato un'ulteriore pioggia di premi. Dopo una prima fase della sua malattia, che sembrava essersi risolta positivamente, ha affrontato l'esperienza della versione scenica de «Il dolore» di Marguerite Duras, che avrebbe anche dovuto riprendere all'Argentina di Roma nel dicembre scorso, toccando profondamente il pubblico con tutte le sfumature di una sofferenza psichica quanto fisica, condivisa in maniera autentica e radicale con la protagonista. Non si rammaricava più di tanto per non essersi sposata e non aver avuto figli. «Quando mi manca la famiglia, vado da mia sorella. Sto con lei e i suoi bambini un pomeriggio e poi torno felice alla quiete, all'ordine e al silenzio della mia casa tutta per me - diceva ridacchiando - La solitudine, gli alberghi sempre diversi, i viaggi, la fatica notturna quotidiana sono gli svantaggi di essere un'attrice, ma mi vergogno di lamentarmi per rispetto di chi sta peggio», ripeteva spesso, non lasciandosi abbacinare dalla fama e mantenendosi sempre una donna inserita nella realtà del suo tempo.