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di Sarina Biraghi Sei gennaio 1913, quando una Pasqua d'Epifania divenne la «Pasqua rossa».

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Quellache non hanno mai avuto i sette morti dell'eccidio del 6 gennaio 1913, l'evento più cruento della storia di Roccagorga, su cui molti «figli» del piccolo centro lepino, hanno indagato, scritto, rappresentato per stabilire la verità. A volte facendo troppa sociologia, altre molta filosofia, altre ancora troppa politica. Nell'importante anniversario, l'episodio viene ricordato con un'analisi storica e giuridica, non condizionata da ideologie politiche, in «A cento anni dalla strage» (Biblioteca di Eurisco) da Tommaso Leo Orsini, storico che da oltre 40 anni si dedica alla ricerca di documenti su «una strage annunciata» liquidata con una «sentenza beffa». Roccagorga era stata sottoposta a secoli di regime feudale e, nella prefazione firmata da Narsete Orsini, l'analisi demografica della popolazione, dal 1656 al 1911, aiuta a contestualizzare la strage: per lo più contadini che coltivavano i terreni di proprietà del feudatario, la nobile famiglia Doria Pamphilj, i cui beni venivano amministrati da Vincenzo detto Cencio Rossi, sindaco del paese; altri invece coltivavano i fondi di proprietà della Chiesa. I contadini oltre a dare parte del raccolto al padrone, dovevano pagare i tributi per raccogliere legna o macinare nei mulini e nei frantoi, e in più, versare le tasse al governo centrale. Un popolo stremato che tentava di sopravvivere più che vivere con uno Stato «braccio armato delle classi dominanti». E quel 6 gennaio 1913 la gente si ritrovò in piazza non per una rivendicazione sindacale, ma per una protesta civile, per chiedere l'allontamento del medico che «trafficava» con i farmaci, per chiedere la raccolta dei rifiuti... La popolazione espresse la propria rabbia con una fitta sassaiola contro soldati e carabinieri che si ergevano a difensori dell' autorità costituita e la reazione fu violenta: i militari risposero con le armi e il selciato della piazza si tinse di rosso per il sangue di un bambino di cinque anni, di due donne e di quattro uomini. Più che un ricordo, «A cento anni dalla strage» è la collera, lo sdegno profondo di Leo Orsini perché quei morti gridano ancora vendetta, perché una «sentenza beffa» assolve tutti e non condanna l'assassino o, gli assassini, perché troppo spesso in Italia, allora come ora, non si riesce a trovare il colpevole. L'indagine è fallace, scrive Orsini, perché è chiaro che non fu la sassaiola a provocare la reazione della truppa ma due colpi di pistola: il tenente Gregori ordinò di sparare sui manifestanti, che erano raggruppati in modo visibile e con tutta evidenza estranei ai colpi di rivoltella, partiti da dietro il Comune. I due colpi furono sparati da Cencio Rossi, sindaco e governatore del feudo Doria Phampilj, che non aveva alcuna intenzione di far scoprire le sue malefatte. Altro personaggio della storia locale su cui Orsini invita a riflettere è Dante Mucci che va alla manifestazione, guida la gente, la incita ma senza avere il controllo della situazione: Mucci era un benestante, direttore della Società Agricola Savoia, un consigliere comunale che aveva l'obbligo di conoscere le regole dell'esercito e quindi di disperdere la folla per evitare che la truppa facesse fuoco. Per evitare i morti. «La costernazione per i miei compaesani uccisi, non è solo formale e letteraria. - spiega l'autore - Ma è possibile che sette cittadini vengano fucilati perché manifestano davanti al Comune? Negli anni '70, quando cominciai ad interessarmi della storia e delle vicende del mio paese, raccolsi varie testimonianze dei protagonisti dei fatti. Mi raccontarono di un nome eccellente e della sostanziale copertura da parte delle cosiddette "scarpe lucide" e anche delle istituzioni ecclesiastiche, oltre alla totale codardia e imbecillità di Dante Mucci». Per questo l'autore rilegge più criticamente anche le reazioni populiste dell'epoca, come quella del socialista Benito Mussolini che da direttore dell'Avanti firmò un risentito editoriale dal titolo «Assassinio di Stato» insistendo sulla repressione sabauda del popolo, sul militarismo... ma anche quella di Antonio Gramsci che vide nell'eccidio di Roccagorga l'avvisaglia dei tumulti rivoluzionari che passarono alla storia come «Settimana Rossa». Grazie ai documenti della postfazione di Rocco Oreste Orsini, si arriva alla conclusione di «A cento anni dalla strage»: motivi stupidi, dinamica prevedibile, risultato tragico e una sentenza beffa. Tutti assolti, nessun colpevole «...per lo strazio inferto da ciurma briaca agli umili chiedenti...», come si legge nella lapide della barocca Piazza 6 gennaio a Roccagorga.

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