Nel puro stile del regista
Ilcineasta premio Oscar (nel '95 per la sceneggiatura di «Pulp Fiction»), ogni volta che porta in sala un nuovo film è costretto a subire un processo nel quale da una parte si schierano i detrattori e dall'altra i «tarantinati», cioè quelli «morsi» dalla Tarantino-mania, che sono un po' come i «tarantolati», cioè quelli che, morsi dalla tarantola, si dimenano in preda a spasmi estatici. Questo ultimo «Django Unchained» non sfugge a questa legge che esiste, non dimentichiamolo, perché Quentin Tarantino, maniaco cinefilo, nevrotico conoscitore di qualunque uso, lecito e illecito, sia stato fatto della macchina da presa, con i suoi film ha cambiato il modo di fare cinema. «Django Unchained» non è per bambini (troppo violento), e dura due ore e 45 minuti. Criticarlo è sin troppo facile, vediamone perciò i lati indubbiamente positivi: è un film ben recitato. Che Jamie Foxx, il protagonista, sia un'attore di eccezionali capacità non stupisce nessuno e lo dimostra la statuetta dorata che si è portato a casa nell'ormai lontano 2005 con «Ray». Ma anche tutti gli altri interpreti in questo film hanno dato il meglio di loro: Christoph Waltz (lui la statuetta l'ha presa nel 2010, proprio con Tarantino per «Bastardi senza gloria») ha cesellato un personaggio quasi da operetta, senza mai cadere nel ridicolo. Kerry Washington, l'unica signora in questa truculenta tragedia piena di uomini, è precisa e misurata. Leonardo DiCaprio, archiviato il ruolo del bello, ha tirato fuori quello del «maledetto», dimostrando (se ancora ce ne fosse bisogno) di essere un signor attore. E poi c'è Samuel Leroy Jackson, per una volta diciamo tutto il suo nome invece di lasciare quella «elle» puntata, che ha scolpito un grande personaggio. Una sorta di «zio Tom» cattivo, un servo fedele fino all'autodistruzione, una maschera che, come dice nel film la bella Kerry Washington, «fa paura». È intorno a lui che ruota tutto il film e che trova il suo reale senso. Perché «Django Unchained» un senso lo ha: è una riflessione amara sulla ferocia umana, che non è un'invenzione del cinema, ma la realtà della storia. Tarantino ha messo in riga questo cast di eccezionale caratura e, strizzandolo, probabilmente senza troppi complimenti, ne ha tirato fuori quello che voleva: una tragedia comica o, se preferite, una commedia tragica, sanguinaria, violenta, perfettamente in linea con lo «stile Tarantino», eppure tanto imprevedibile. Le due ore e 45 corrono veloci, sono un «distillato di Tarantino», «Tarantino puro». Il film piacerà tutti quelli che da anni apprezzano il regista. Il pericolo è che lo «stile Tarantino» diventi un «codice», compreso e apprezzato solo dagli appassionati. Ma loro, almeno, saranno contenti. A. A.