Il punto
Erail 1992 quando sugli schermi veniva proiettato per la prima volta il film con Harvey Keitel, Tim Roth e Steve Buscemi. Allora nessuno era consapevole che il cinema stava per voltare pagina. Basta pensare alla scena del poliziotto legato, imbavagliato e torturato sulla sedia del capannone per capire quanto i deliri e le fantasie di Tarantino abbiano invaso l'immaginario di tutti noi. Eravamo solo all'inizio e il meglio doveva ancora arrivare. Solo due anni dopo, la Palma d'oro a Cannes per «Pulp Fiction» e poi l'Oscar per la miglior sceneggiatura originale decretavano ufficialmente la nascita di un genio e la rivincita del cinema indipendente. Da allora Tarantino ha cominciato a dettar legge. Decine di registi hanno provato a scimmiottare le sue atmosfere, i suoi dialoghi surreali, la sua violenza splatter e il suo umorismo dirompente e spiazzante. Tarantiniani o tarantinati poco importa. Tarantino o si ama o si odia. Dopo «Pulp Fiction» nessuno ha potuto far finta di niente. Bisogna farci i conti. Tarantino i conti li ha fatti soprattutto al botteghino. Inanellando una serie di successi che lo hanno reso uno dei registi di culto di quest'inizio millennio. Avrebbe potuto continuare a ripetere se stesso in tutte le salse, ma dopo aver fatto ripartire la carriera di John Travolta e Pam Grier ha deciso di sfidare tutti i generi. Come i grandi hanno fatto prima di lui. E allora via al poliziesco «Jackie Brown», al marziale «Kill Bill», al film di guerra «Inglorious Basterds» e ora al western «Django Unchained». Sempre con la consapevolezza di dovere tanto a chi è venuto prima di lui. Con l'esplicita ammissione di ispirarsi ai film che lo hanno fatto crescere. Ma senza alcun complesso di inferiorità. Anzi sapendo bene che la citazione mette in imbarazzo soprattutto chi non la capisce. Perché «i grandi artisti non copiano, rubano». Se lo dice Stravinskij... Car. Ant.