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Dieci anni senza Gaber La solitudine del Signor G.

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Spostava sempre il limite della sua ricerca intellettuale I post-sessantottini non gli perdonarono il «distacco»

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Sene andò in un giorno di festa, dieci anni fa, e se c'è un Paradiso il Padreterno gli avrà chiesto sicuramente di cantargli subito quella micidiale invettiva di 14 minuti, "Io se fossi Dio", scritta all'indomani del delitto Moro, dove se la prendeva con chiunque, sostenendo che a questo Dio cui "faceva rabbia chi spara/gli fa anche rabbia il fatto/che un politico qualunque/diventa l'unico statista". Ma dire che Gaber fosse contro il "potere" è ridurre la sua grandezza a quella di una figurina. Era un uomo contro tutto, in marcia per se stesso come gli esploratori, e per questo votato alle mille solitudini del suo tempo. All'apice della sua carriera "pop" (quella di "Non arrossire", "Torpedo blu", "Goganga" o "La ballata del Cerutti" scritta per lui come altre dalla penna nobile di Umberto Simonetta) smise di frequentare la televisione trovandola "dequalificante" (nel 1970...). Sapeva che l'avventura del "teatro-canzone" sarebbe stata un'incognita, lo spostamento continuo di un limite intellettuale ed artistico che non era però "etico": Giorgio non voleva impancarsi a moralizzatore di quel decennio bastardo. Ne era semmai il termometro umano, costasse quel che costasse. Molti anni prima di chiedersi cosa fosse la sinistra e cosa la destra, si misurò con l'abbraccio mortale del conformismo ideologico post-'68, prendendone progressivamente le distanze, fino al lacerante confronto con i giovani politicizzati in "Polli d'allevamento": Gaber li scherniva con la sua osservazione sapida, senza sconti né carezze, e quelli gli tiravano le monetine sul palco, lo insultavano sanguinosamente. Lui li bacchettava ferocemente nel pezzo chiave dello spettacolo, "Quando è moda è moda": "Sono diverso, sono polemico e violento/ non ho nessun rispetto per la democrazia/ e parlo molto male di prostitute e detenuti/da quanto mi fa schifo chi ne fa dei miti/ di quelli che mi diranno che sono un qualunquista non me ne frega niente/ non sono più compagno, né femministaiolo militante,/mi fanno schifo le vostre animazioni, le ricerche popolari e le altre cazzate/ e finalmente non sopporto le vostre donne liberate/con cui voi discutete democraticamente,/sono diverso perché quando è merda è merda/ non ha importanza la specificazione...". Gaber ne uscì logoro, ma a testa alta, da quegli anni in cui lo slogan della sinistra extraparlamentare era "il personale è politico". Nel '73, in "Far finta di essere sani" l'ansiogena adesione all'Utopia corrodeva l'anima del Signor G., che sapeva di essere costretto a fare i conti con le emozioni private: cantava "Chiedo scusa se parlo di Maria", ma dietro quel nome di donna non spuntava "nemmeno un amore, non mi conviene", solo un discorso frantumato e vuoto su cose troppo alte, come "la libertà, la rivoluzione, il Vietnam, la Cambogia, la realtà". Il Signor G.: l'omino suo alter-ego degli esordi come cantattore, il personaggio spaurito ma a suo modo anche coraggioso che investigava le proprie contraddizioni in un'epoca in cui parlarne era considerato "da reazionari", segno di fiacco sentimentalismo individualista e borghese, così come lo vedeva l'ortodossia marxista. Fu capito, quel "signore come tutti" che aveva disegnato nella sua testa assieme al pittore e sodale per sempre Sandro Luporini? O anche il Signor G. rischiava di parlare in nome e per conto di chi chiedeva a Gaber di schierarsi senza condizione? Giorgio intuì il pericolo: che significavano davvero gli applausi quando (in "Dialogo tra un impegnato e non so") cantava a squarciagola che "la libertà non è uno spazio libero/libertà è partecipazione"? Il libro di Luporini, che esce oggi, farà luce su tante cose. "G. vi racconto Gaber" (Mondadori) racconta della costruzione a due voci e a due menti di un unico corpo artistico, quello di trent'anni di teatro-canzone dove tante cose venivano, fatalmente, fraintese o strumentalizzate. Scrive Luporini: «Avrebbero voluto da Giorgio e da me delle risposte. Proprio da noi che abbiamo vissuto tutta la vita nell'assoluta certezza del dubbio». Il dubbio. L'interrogativo. Radici di chi ha il Dna innestato in una terra di confine, come era la Gorizia della famiglia Gaberscik, prima del Veneto e dell'approdo a Milano dei genitori di Giorgio. Quando era già alle prese con il Padreterno, uscì il suo album postumo. Vi sottolineava: "Io non mi sento italiano/ma per fortuna o purtroppo lo sono". Era stato un ragazzino gracile, un trauma al braccio sinistro che gli aveva quasi paralizzato la mano. Per aiutarlo a guarire, gli comprarono una chitarra. Lui disse: «Tutta la mia carriera nasce da questa malattia» che lo rendeva speciale, ironico e inquieto. E umanissimo, come il suo Signor G.

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