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Le fantasiose ceramiche di Mirò

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La passione del geniale artista inizia negli anni '40 quando imparò la tecnica da Josep Llorens Artigas

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Epoi c'è la lotta con gli elementi, la terra, il fuoco; e io sono molto battagliero. Il ceramista deve saper dominare il fuoco. E l'imprevisto! Ecco un'altra attrattiva. Anche se si usa la stessa formula, lo stesso grado di cottura, non si ottiene mai lo stesso risultato. L'imprevisto determina una brusca emozione, e questo mi attrae irresistibilmente». Ossessionato dalla sperimentazione continua, Mirò amava infatti definirsi come un artista che "tenta di esprimersi con tutte le tecniche", dall'incisione all'acquerello, dall'assemblaggio oggettuale alla ceramica, solo per dirne alcune. Ed ora una bella mostra, allestita fino al 16 febbraio nelle sale del Museo Civico di Veroli (Frosinone), ci aiuta a scoprire la passione del geniale artista per la ceramica ed il suo costante dialogo creativo con i due grandi ceramisti, forse i maggiori del XX secolo, che gli hanno insegnato la tecnica e con cui ha lavorato per molti anni, Josep Llorens Artigas e suo figlio Gardy Artigas. La mostra, curata da Luigi Fiorletta con la collaborazione di Loredana Rea e Daniele Fraccaro, ha ovviamente il suo centro nelle estrose e metamorfiche ceramiche di Mirò ma al suo fianco presenta anche quelle, anch'esse di altissimo livello, dei due Artigas, per sottolineare che senza questo connubio a tre lo stesso vulcanico artista catalano non si sarebbe dedicato a questa tecnica primordiale e tipicamente mediterranea ma difficile da padroneggiare. La guerra di Mirò con il fuoco, come lui stesso amava chiamarla, prende avvio alla metà degli anni quaranta, quando il grande artista decide di imparare la tecnica della ceramica da Josep Llorens Artigas. Mirò è affascinato dalla possibilità di unire in un nuovo organismo plastico pittura e scultura ma anche dal sapore arcaico di una tecnica che nasce dai quattro elementi primordiali dei filosofi antichi, acqua,aria, terra e fuoco. Inoltre, si accorge che la ceramica gli permette ogni volta di creare un mondo nuovo, l'unica vera qualità che ai suoi occhi connota la vera opera d'arte. Tra il 1944 e il '45 escono dai forni di Artigas le prime ceramiche firmate Mirò, all'inizio oggetti dalle forme semplici poi rese sempre più fantasiose, sulle cui superfici il colore si accende e divampa come fosse il figlio pacifico del fuoco. Una nuova avventura comincia nel 1951, quando Artigas si trasferisce nel piccolo villaggio di Gallifa, in Catalogna, in un antico complesso con il mulino e una chiesetta romanica in pietra squadrata. Il forno a legna è collocato al piano terra del mulino ed è talmente imponente da penetrare nel soffitto ed arrivare fino al solaio. Qui, in due anni e mezzo di lavoro inesausto ed entusiasta, vedono la luce 232 pezzi, frutto di una collaborazione polifonica fra i due Artigas e Mirò. Si va da opere delle dimensioni di un uovo a quelle alte quasi tre metri e mezzo. Le rocce scoscese di Gallifa ricordano a Mirò quelle erose dal vento dell'amata Montroig e l'artista sembra tornare bambino, manipola l'argilla con irrefrenabile inventiva e si abbandona alla forza della natura che lo circonda, come racconta Fiorletta nel suo saggio in catalogo. Alcune sculture, fra quelle esposte in mostra, sembrano ciottoli, altre evocano una femminilità feconda e generatrice come la Magna Mater mediterranea. Le creature vagamente antropomorfe e sottoposte da Mirò ad una continua metamorfosi sono degli "antiritratti" perché non possiedono alcuna connotazione naturale e riconoscibile da un punto di vista individuale. Sono figure sospese tra cielo e terra, legate ai miti archetipi del mediterraneo e cariche di una forza primordiale destinata a produrre stupore e meraviglia. Invece nelle sue ceramiche Josep Llorens Artigas è più pacato e minimale, non ricorre ad esuberanti decorazioni pittoriche lasciando quasi che il colore promani direttamente dalla materia, con naturalezza. Più fantasioso, sull'onda dell'esempio di Mirò, è suo figlio Joan Gardy, che sconvolge le forme tradizionali, creando un piatto rotto, la donna serpente o "le labbra di sabbia". Insomma, per tutti e tre si può parlare di prodigiose creazioni nate dall'argilla ed ascese nell'empireo dell'arte. Lo ha spiegato bene proprio Mirò: «Bisogna tenere i piedi saldamente sulla terra per poter poi fare dei grandi salti verso l'alto: è proprio il fatto di scendere qualche volta sulla terra che mi permette di volare». La terra, l'argilla, il sogno e il volo dell'arte.

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