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Battaglie greco-romane tra strategie e storia

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In un libro le scoperte dello storico Frediani La legione di Roma era più forte della falange

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Sonoloro, fieri e feroci, ma leali, a offrire il loro braccio al servizio della patria, impegnandosi in quella prova di coraggio supremo che è il duello. Godono del sostegno o dell'ostilità degli dèi che scendono in campo e parteggiano, è vero, e capita anche che talvolta li afferri il morso della paura: ma la loro dignità non ne soffre. Reagiscono, e la contesa in cui si impegnano - vincere o morire - li esalta. Basti pensare all'aura di splendore che circonda, nell'Iliade il troiano Ettore e il greco Achille. Al vincitore e al vinto, ci insegna Ugo Foscolo nei "Sepolcri", è consacrata la memoria dei posteri. Anche nella Roma arcaica è al duello che sono spesso riservati oneri e onori: si veda quello che vede contrapporsi i tre Orazi romani e i tre Curiazi albani, gli uni e gli altri fratelli gemelli, al fine di decidere quale città avrebbe avuto la supremazia sul Lazio: Roma o Alba Longa. Ma i libri di storia - ammesso e non concesso che storia e leggenda siano "zone" del tutto separate - ci parlano di eserciti. Di grandi capi militari, di grandi condottieri, sì, ma che manovrano gruppi di combattenti tanto più funzionanti quanto più assomigliano a un organismo, a una efficiente realtà strutturata in cui la disciplina delle parti e dei ruoli, gli armamenti le competenze, le tecniche dell'azione, la compiuta visione strategica e gli adeguati accorgimenti tattici propiziano la vittoria. E a dare il profilo di una civiltà - insieme all'eredità della cultura - è anche l'arte della guerra. Quella in cui signoreggiarono prima città greche come Sparta e poi, molto più a lungo, Roma che vinse perché "doveva" vincere. E "doveva" vincere perché, ci spiega Andrea Frediani, a suon di puntuali argomentazioni che poggiano su una notevole competenza di storico "militare" (è consulente scientifico della rivista "Focus Wars" e autore di svariati saggi dedicati a celebri battaglie), la legione romana, per come era costituita e quindi per come combatteva, era "superiore" alla falange greca ("Le grandi battaglie tra Greci e Romani. Falange contro legione. Da Eraclea a Pidna tutti gli scontri tra opliti e legionari", pp. 284, euro 12,90). A darne chiara testimonianza sono "nomi" dotati di grande suggestione perché evocano aspri scontri di eserciti, e, se vogliamo, di "civiltà": luoghi come Eraclea, Benevento, Cinoscefale, Pidna; condottieri come Pirro, Tito Quinzio Flaminio e Lucio Emilio Paolo. Siamo chiamati ad una "immersione totale" in un tempo e in uno spazio, sollecitando anche memorie scolastiche ed ampliandole grazie alla ricostruzione attenta e minuziosa, che caratterizza le ricerche di Frediani. E non dimentichiamo che lo studioso romano non è solo un saggista: in lui, infatti, si manifesta una sorta di intuito letterario che consente di ritrovare colori e umori di un'epoca, disegnando profili storici affascinanti (si veda l'"esplorazione" condotta nel cuore della famiglia Giulio-Claudia in "Dinastia. Il romanzo dei cinque imperatori", Newton Compton). Ma torniamo a quella che fu quasi una sfida tra Grecia e Roma, giocata lungo un secolo in cui opliti e legionari si affrontarono per decidere chi primeggiasse nell'arte della guerra. È indubbio che la falange e la legione furono le due più grandi unità militari del mondo antico e che, come ricorda Frediani, né i cunei degli eserciti barbarici, né le cariche dei carri da guerra degli Hyksos, degli Egiziani, dei Celti, degli Assiri, dei Pontici, dei Seleucidi, né quelle delle cavallerie corazzate partitiche e sassanidi, né i micidiali tiri coordinati degli arcieri persiani, né i lanci devastanti dei frombolieri balearici o cretesi: nulla di quanto, pur glorioso e terribile, fu rappresentato da queste unità militari, insomma, conseguì i risultati raggiunti prima dalla falange e poi dalla legione. Due eccellenze, dunque: e che, inevitabilmente, dovevano incontrarsi/scontrarsi sul campo. L'una per difendere e confermare un primato, l'altra per conquistarlo e renderlo sempre più forte e sicuro. Frediani entra nel merito con la precisione che lo distingue e che gli assicura tanti appassionati lettori: così, riusciamo a "vederli" i nostri guerrieri nelle loro rispettive formazioni di combattimento, mentre si parla di armi, di sarisse, di gladii, di spade corte, di aste, di elmi, di scudi, di corazze, di schinieri, di sandali, di "caligae". E di gradi, di strutture, di schieramenti, di tattiche. La nomenclatura è ricca, ed è giusto che sia così: a ciascuno il suo, mentre l'immaginario corre da un paesaggio storico all'altro, dalle guerre tarantine a quelle che segnarono la fine dell'indipendenza greca. Ma perché i Romani vinsero? Per le loro superiori capacità "professionali". E cioè perché seppero "perfezionare l'arte della guerra ereditata dal mondo ellenico e portarla al massimo delle prestazioni", abituandosi a combattere con una estrema varietà di nemici - eserciti campali, città fortificate, guerriglieri di montagna - e mantenendo in ogni circostanza coesione e compattezza, grazie a uno strumento bellico flessibile perché in grado di impegnarsi su ogni tipo di scacchiere.

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