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San Gregorio Armeno

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dove nasce il Messia «Banditi» i semplici pastorelli in creta Manualità e fantasia degli artigiani partenopei

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Evi torna perché siamo nei giorni di Natale, e quella via, affollatissima e babelica sotto le Feste, intitolata a un vescovo armeno del terzo secolo, è il regno dei presepi, ovvero il luogo dove artigiani e negozianti offrono gl'immaginari, piccoli scenari della Natività, con le figure del Mistero (la Madonna, San Giuseppe, il Bambinello) e le figurine dei «personaggi» (che i napoletani chiamano «pastori») nella loro sovrabbondante varietà. Tutto questo succede a Napoli perché Napoli è da sempre, più d'ogni altra e ancora oggi, la città dove è più caldo l'amore per il presepe. (Invero è un amore che vigoreggia affettuoso e forte anche a Palermo, già capitale in seconda del regno più grande d'Italia, e non di meno è vivo a Bari, capoluogo delle Puglie: e a Roma gioisce in tante case, oltre che nelle magnificenza delle chiese. Ma molto meno è sentito a Genova, a Firenze o a Torino, città dove sono più numerose le esclusive predilezioni per l'abete). Via San Gregorio Armeno è l'antica strada Augustale, nella Napoli greco-romana. A monte c'è la piazza San Gaetano, con la statua, appunto, del grande santo vicentino Gaetano da Thiene, fondatore del potentissimo ordine dei frati regolari teatini, rivali tra Cinquecento e Seicento dei gesuiti e dei domenicani. Un santo «popolare», benché si notasse, con scherzoso riferimento ai tanti lasciti giunti a quella confraternita,«San Gaetano tiene, e nui nun tenimme niente». Alla fine, la via incrocia il decumàno maggiore, uno dei due che, con i loro cardini, ripetono la forma urbis a mo' di castrum, di accampamento, che piaceva ai romani. E poi, chi non passò da quelle parti, tra i palazzi delle famiglie nobili, e perciò anche per via San Gregorio Armeno? Ecco l'Aquinate, sommo teologo; poi ecco i passi di Boccaccio innamorato di Fiammetta, e quindi quelli di Petrarca poeta laureato. Poi, nella Napoles hispanica infierì la peste spietata, insorsero i rivoltosi di Masaniello, operarono ì maestri del barocco; e dopo, nel secolo dei Lumi, per quelle strade lastricate di bàsoli, ecco la carrozza del principe Raimondo de Sangro di San Severo, del quale si sussurrava che di carrozze ne avesse un'altra fatata, che andava per mare: ed egli per tanti versi davvero sembrava possedere arcane conoscenze, o per mezzo di artifici voleva mostrare di possederne, e non gli bastava di essere un fine politico, un segreto alchimista, un influente frammassone: tanto, che volle aggiungere nella cappella di famiglia, sempre da quelle parti, delle note che sfidavano l'arcano e accendevano la meraviglia: e cioè delle «macchine anatomiche» che simulavano un'inspiegabile pietrificazione dell'umano sistema sanguigno, e una statua, il «Cristo velato», il cui marmo appariva lieve e trasparente sul volto del Crocifisso. E tout se tiens, bisogna dire, perché l'autore di questo miracolo di levità compiuto nel marmo e tuttora ammirato - la cappella è nei paraggi di via San Gregorio Armeno - era Giuseppe Sammartino, un grande scultore, certamente il maggiore tra quelli che lavorando il legno o piuttosto la creta «facevano» anche le teste e le mani delle figure presepiali destinate alle più doviziose committenze (il corpo dei «personaggi» era fil di ferro rivestito di preziose stoffe). Sebbene già dal XIV fossero diffuse le rappresentazioni della Natività, è dunque nel Settecento, per meglio dire dal regno di Carlo III Borbone (1734-1759) che a Napoli, s'innalza al primato il presepe più straordinario che si conosca, quello che vanta una letteratura impareggiabile, scenico dispiegamento di devozione, simboli, arte, acume, ironia; e ancora, rassegna di caratteri, di ruoli, d'indigenze, di abbondanze. Insomma, rappresentazione del mondo in cui giunge il Messìa promesso dalle Scritture: il mondo com'è, con il bene e con il male. Un po' tutti sappiamo, chi più e chi meno, che più direttamente presepio viene dal latino praesepium, che sta per mangiatoia, la culla in cui fu accolto Gesù poiché non c'era posto per Maria e Giuseppe nell'albergo di Betlemme. Lo racconta Matteo, l'evangelista forse più attento ai dettagli. Il quale nulla dice del bue e dell'asinello, introdotti nella rievocazione della Natività dopo che San Francesco, per primo, la ripropose in una grotta di Greccio nel 1223. Ma cita tre presenze che in modo differente segnalavano la santa e rivoluzionaria eccezionalità della venuta al mondo di quel Bambino. Dinanzi alla mangiatoia c'erano i rifiutati, vale a dire i pastori, che per la loro condizione non erano ammessi ai luoghi e ai riti della religione; c'erano i re-magi, o maghi, sovrani d'imprecisati domìni d'oriente e di segrete sapienze: tre re che nei loro diversi aspetti e costumi riassumevano la pluralità delle razze, dei popoli; e c'era la stella, l'evento cosmico della profezia, che li aveva guidati fin lì. E perché mai Napoli nel Settecento mette in scena, e senza risparmio, quella Nascita? Qui le ipotesi sono parecchie, e alcune appaiono subito verosimili. C'è un giovane e grande re, appunto Carlo III, che ama il bello, il grandioso, l'inaudito. Fa la reggia di Caserta e nei pressi le Seterie di San Leucio, dove gli operai son chiamati a partecipare agli utili: un palazzo reale che oscura Versailles e una sorta di socialismo, ante litteram. Costruisce la reggia di Capodimonte e vi annette una Fabbrica da dove usciranno porcellane tra le più belle d'ogni tempo; e via elencando, in una città che con la rappresentazione scenica del Natale centra il messaggio evangelico: Dio non è più un'entità ineffabile; Dio sé fatto uomo in Cristo ed è venuto nel mondo: e la scena presepiale napoletana, con tutti i suoi soggetti. Con le case, il fiume, le botteghe, il monaco, la meretrice, la «Regina mora», gli animali, è appunto il mondo. * * * Ciò che ferisce, è che una parte di via San Gregorio Armeno è appannaggio di volgari mercanti, che ormai da anni vendono «pastori» di plastica «made in China», carini e carucci come bamboline. Che vergogna. Sicché nelle botteghe oneste sono comparsi cartelli «No China». La verità è che la poesia della statuina di creta fatta alla buona, pitturata alla svelta, voglio dire «è pasturielle d'e puverielle» è svanita. E non so quanti siano ancora i maestri «pastorari» della bravura di un De Francesco, vecchio già cinquant'anni fa: il quale plasmava mani e teste d'una espressività settecentesca, o persino barocca: e con una sveltezza mirabile. La speranza è che non alligni la moda dei paesaggi natalizi innevati «made in Usa», nei quali c'è tutta la scena del mondo, graziosa di lucine, casette e campanellini, alberelli e carrettini. Ma senza il Mistero.

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